Si chiamava Ernest Hutten, ebreo, fisico nucleare, docente all’Università di Londra, ieratico nell’aspetto, semplice ed elegante nei modi. L’ho incontrato molti anni fa a Roma ai corsi di Epistemologia (storia della scienza) che si tenevano all’Università “La Sapienza”. Aveva fatto parte negli USA del famoso Progetto Manhattan del 1939, finalizzato alla costruzione della bomba atomica. Ultimo arrivato, era il più giovane del gruppo degli scienziati. Più volte mi sottolineava che tra tutti gli uomini del progetto, pur conoscendone le finalità, nessuno parlava di bomba atomica. Quando dopo Hiroshima e Nagasaki fu tutto chiaro, il gruppo si è dissolto; molti si sono suicidati, altri si sono distribuiti in laboratori e università del mondo. Huttun sbarcò a Londra. Il Progetto non ebbe però solo fini militari – mi ripeteva continuamente Hutten – ma anche numerose implicazioni della scienza, della sua organizzazione e percezione. Un giorno mi presenta un articolo del suo amico e collega di Progetto, Alvin Weinberg pubblicato su Science nel 1961 (ma egli da anni ne conosceva il contenuto), dal titolo “Impact of Large-Scale Science in The United State”, ove per la prima volta si parla di Big Science. Intendendo con questo binomio un progetto scientifico voluto e diretto dalla politica, di immense dimensioni economiche, basato sull’impiego di sofisticata strumentazione e con un forte controllo amministrativo. Il saggio si pone tre domande: Big Science sta rovinando la scienza? Big Science sta rovinando finanziariamente i paesi che l’adottano? Big Science può essere indirizzata meglio?E Weinberg dà risposte precise e circostanziate. Poiché Big Science necessità di grandi fondi statali si presuppone il consenso dei contribuenti, per ottenere il quale occorre quell’arma cruciale che è la divulgazione attraverso i media. Ed essenzialmente, in accordo con Fiorenzo Conti, la comunicazione giornalistica non contemplata dal metodo scientifico. Quindi a partire dal Progetto Manhattan, passando per la Big Science, emerge ancora la comunicazione. Orale, scritta o digitale? Sembra che la carta stampata meglio esprima l’esigenza diffusiva della Big Science, per le numerose componenti che la compongono. Anche se sappiamo che la Big Science può avere risvolti non sempre positivi per la condizione umana, a causa ad esempio della denarite (come la definisce Weinberg), tuttavia dobbiamo conviverci. Nessuno accetta che la Big Pharma non investa da oltre venti anni fondi per la ricerca di antibiotici, che al momento sembra non essere remunerativa malgrado l’antibiotico- resistenza diffusa in tutto il mondo. Ma le applicazioni sono maggiori se prendiamo in considerazioni altri ambiti come la biologia (Progetto Genoma) e le neuroscienze (Brain Initiative-USA), (Human Brain Project-EU). Convivere con la Big Science purché non schiacci la preesistente Little Science, che è la scienza umana di tutti i giorni. È la scienza che con le sue scoperte sostenta il design, la moda, la locomozione leggera (bici e moto), turismo, commercio, sport con relativi device, agricoltura e alimentazione, robotica, arte, sistemi di intelligenza artificiali e algoritmi per la nostra salute. Sono tutte componenti di cui l’uomo trae o trarrà vantaggio, sono il volano per una nuova umanità, poiché frutto della Little Science. Questa, a differenza della Big Science non necessariamente, come mi riferiva Hutten anticipando Weinberg, è sempre a favore dell’uomo e imprime una tale velocità tecnologica da cambiare in meglio la sua storia.