Una scuola di vita

Venerdì, 31 Marzo 2017,
Da mio padre non ho mai ricevuto vere e proprie “lezioni” semmai indirizzi e sollecitazioni ad osservare il mondo, e notare i dettagli o i colori o le ombre sulle colonne dei templi greci. Per cui alle domande di cosa mi è rimasto dell’insegnamento di mio padre posso rispondere solo nel senso di una scuola di vita, i cui contenuti si stratificano dentro di te con lentezza senza che te ne accorga e ti rimangono dentro come radici. Una scuola fatta di silenzi perché mio padre non parlava: io ricordo viaggi di ore silenziosi in auto, forse dovuti a timidezza e ritegno, a cui io ero abituato ma che metteva in imbarazzo gli altri ospiti del viaggio.  Ogni tanto il silenzio era rotto da osservazioni brevi ma assolute che testimoniavano una acuta attenzione verso il mondo circostante. Io credo che gran parte dei silenzi fosse dovuto al “portarsi dietro” in testa il progetto a cui in quel momento stava lavorando e che ripassava mentalmente mentre faceva altro secondo il principio citato da Franca Helg “che usava tenere sulle ginocchia un progetto come si fa con un bambino”. Comunque ricordo che mio padre è sempre stato presente nelle decisioni importanti della mia vita intervenendo senza rumore né dichiarazioni d’intenti spesso facendo sì che la soluzione apparisse quasi spontaneamente senza rivelare che al contrario era stata creata apposta. Questo poco si concilia con l’immagine proposta dalla storiografia ufficiale di Albini come calvinista e moralista rigido e severo. Così come credo si debba sfatare il detto popolare di Albini razionalista che crede nella funzione che determina la forma “form follows function” e in un processo quasi automatico di derivazione dei risultati di un progetto. Al contrario tutto questo è rinnegato dagli esempi degli allestimenti temporanei degli anni ’30 e da altre opere di architettura del dopoguerra oltre che da molti oggetti di design in cui i principi fondativi dell’architettura razionale sono stati trasfigurati in una sorta di sintesi poetica quasi lirica che ha realizzato oggetti e spazi atmosferici di estrema leggerezza e lievitazione in cui si legge il ritmo e la regola costruttiva di base, ma con un risultato estetico quasi “surrealista” e di una modernità umanistica e astratta. È vero che alla base dei progetti vi era sempre la ricerca di un ordine, di un metodo che rifiutasse l’arbitrio della fantasia, ma sempre la sintesi che ne risultava portare l’afflato poetico della leggerezza, della sfida alle leggi di gravità.  “Zero gravity” era il titolo della mostra su Franco Albini allestita alla Triennale di Milano nel 2006 e curata da Renzo Piano con un allestimento che rappresentava e interpretava le caratteristiche sia delle opere principali che del carattere di mio padre.  La ricerca dell’anima delle cose raggiunta attraverso un processo di progressiva eliminazione del superfluo, di riduzione all’essenziale fino ad arrivare a quel “niente” citato da Persico che fa sì che tutto lieviti, niente tocchi terra, spesso appendendo gli oggetti al soffitto mediante reti di cavi tesi tra le pareti delle sale. Così è per gli allestimenti temporanei alla Triennale e alla Fiera degli anni ’30, oppure nel negozio Olivetti di Parigi degli anni ’60 o nella casa Marcenaro a Genova o villa Formiggini a Varese. Per cui io credo che vi fosse uno “iato” tra la coscienza critica che spingeva verso un controllo rigido del processo di progettazione e uno scatto lirico interpretativo che produceva un risultato nuovo e sorprendente. Marco Albini

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