Né questo, né quello. È ciò che accade quando qualcosa è compiuto, risolto, concluso. La nostra mente, i nostri sentimenti, apprezzano ed accedono a quello “spazio di mezzo” che è il reale.
Succede ogni giorno, forse senza che ne siamo davvero consapevoli. In questo business accade a collezione presentata, a financial report condiviso con gli investitori, ad evento o lancio di prodotto finalmente portato a termine. Viviamo il sapore di uno spazio interiore e pubblico cui non si può aggiungere nulla, perché esso è: esiste e forse è già passato qualche minuto fa. Questo è realismo.
In oltre trent'anni di lavoro nella comunicazione e nell'intricata comunicazione della moda, ho imparato quanto sia nostra responsabilità usare le parole più giuste, oneste, coerenti, affinché chi ascolta, chi ci segue come semplice lettore, come customer o investor o reporter comprenda che, è vero: “Le parole sono azioni”.
Lo ha detto qualche mese fa pubblicamente il direttore di Polimoda, Danilo Venturi, e al di là della gioia nel poter condividere uno dei cardini del lavoro che andiamo a fare ogni giorno con gli studenti, mi sono detto che questa è un'affermazione fondante di un metodo, oltre che di una pedagogia che contiene business.
Se avessi vent'anni e volessi iscrivermi ad una scuola di moda, credo sarei affascinato da quello che ancora Venturi afferma nella sezione Concept del Fashion Displacement sul nostro sito - “Via le maschere e le promesse commerciali, occorre concentrarsi sui contenuti e ricercare la chiave che sta alla base della conoscenza: imparare ad essere ciò che si è” - ma non sono qui per promuovere alcunché, proprio perché credo fermamente che la parola in questo business abbia saputo creare molto e soprattutto rivoluzioni inattese, oltre che generanti.
Se le parole sono azioni, il nostro dovere è porgerle al mondo nel loro puro peso specifico, senza né aggiungere, né togliere: né questo, né quello.
Quando anni fa incontrai Miuccia Prada per la prima volta e – incauto perché giovanissimo – le chiesi di cosa fosse fiera, mi rispose “Delle mie asole”. Tre parole, tredici lettere. Per concentrare in una sola espressione anni di ricerca, creazione, investimento, rischio. Poi forse status e mito.
Quando ancora mi perdevo sui verdi incantati di Alberta Ferretti, prima di intervistarla percepii la sua verticale timidezza e lo scrissi perché quella timidezza aveva senso nello scandagliare alcune ragioni della sua creatività e del suo business. Così come scrissi che preferivo Roberto Cavalli seduto al tavolo del caffè a casa sua, a qualche giorno di distanza da una disavventura fisica e sentimentale: nella sua voce c'era qualche crepatura, dunque era lui più vero, più divertente, emozionante. Mi raccontò che teneva in cassaforte uno dei primi disegni di suo figlio da bambino.
Segni. Segni come le parole che usiamo, che hanno curve e aste, pance e puntini.
Credo che il successo di molte avventure di business nel mondo della moda sia dovuto anche alla capacità di incaponirci sul senso di qualche lettera seguita a qualche altra.
La parola non è il cardine del fashion business, ma ne è uno dei pilastri.
I casi sono infiniti e vanno dalle misuratissime parole di business alle più colorite espressioni di creatività: quello che conta è il loro apporto, la gestione di un percorso ingenerata o provocata da uno speech, il segno verbale che si incide su una semplice T-shirt, ma soprattutto la nostra costante attitudine a fare della parola un vettore multiforme ed utilissimo di “relazione”.
Nel realismo del pianeta moda di oggi che spesso diventa cocente, chi vince è sempre chi si rivolge all'altro con un senso da veicolare. Con la speranza che chi recepisce questo senso lo possa fare suo, integrandolo. Qualche mese fa abbiamo avuto il piacere di avere a scuola – per una guest lecture – uno dei massimi fautori di business di questi giorni, il CEO di Gucci Marco Bizzarri che tra le molte cose interessanti – traduco dall'inglese ndr. – ha detto: “Dobbiamo stare alla larga da direttori creativi che credono di essere benedetti da Dio”.
Relazione, dunque, e ancora: l'alto che cerca il basso e viceversa, il mestiere che fa il paio con la filosofia, il numero che trova conferma nel rapporto con l'altro.
É passato il tempo delle torri eburnee, se persino un colosso come Dior, al primo vagito in passerella della nostra Maria Grazia Chiuri, ha provocato fiumi di parole e di immagini grazie alla semplice frase “We Should All Be Feminist”. Perché “Should” e non “Could”? É un dovere essere Femministe? O Femministi?
Una sola, semplice parola, forse desueta, forse non simpatica, senza dubbio controversa, si appone al panorama fatato di Dior e lo rende agibile, “arabile”, discutibile, dunque – al di là di quelli che vivono sempre sul sono o non sono d'accordo – immensamente aperto, abile a sorpassare in un lampo il puro fatto moda per creare nuovi ponti di senso. Credo che questo sia il nostro compito. Senza travestimenti, maschere, simulacri o scudi. Né tanto meno trappole manipolatorie. La parola costruisce. In questo risiede la sua forza rivoluzionaria.
Francesco Brunacci