Il made in Italy e la proposta di una candidatura a Patrimonio Unesco

Mercoledì, 03 Gennaio 2018,
Moda,
 
In ogni forma di creatività che i nostri artigiani riescono ad esprimere c’è un piccolo Leonardo Da Vinci. Questa è la mia profonda convinzione ed è per questo motivo che ritengo che il made in Italy debba entrare di diritto nel patrimonio Unesco. L’idea di creare un dossier su questo tema e quindi di avanzare una candidatura formale è di carattere culturale. Tutti parlano di artigianato, inteso come saper fare italiano della piccola media impresa, come conoscenza culturale, ma poi manca il riscontro concreto, e non esiste nemmeno una legge sul made in Italy a livello europeo. E per questo ho deciso di metterci la faccia e dedicarmi alla promozione di questa iniziativa che reputo fondamentale per difendere, tutelare e riconoscere a livello mondiale la rilevanza di un asset strategico italiano, già di fatto riconosciuto in ogni angolo del pianeta. I lavori per il progetto sono all’inizio e i vari soggetti del territorio interessati stanno lavorando sul dossier. Appena pronto, si presenta la candidatura vera e propria. I tempi sono lunghi, richiedono due o tre anni, ma a livello di sensibilizzazione e comunicazione abbiamo finora ottenuto importanti risultati. Ottimo il riscontro sia di Confartigianato, che della Confederazione nazionale dell’Artigianato e della piccola e media impresa, e anche di alcuni settori di Confindustria. I grandi nomi della moda hanno dimostrato il loro interesse, a cominciare da Santo Versace, Paolo Zegna, Sergio Tamborini, amministratore delegato del gruppo Marzotto. Pure la grande industria vede favorevolmente il progetto, perché identifica l’artigianato, il made in Italy come una qualità, legandolo dunque al territorio. Consenso trasversale sia dalle pmi e dagli artigiani, che dalle grandi imprese. Si tratta di una risorsa del nostro Paese, e rappresenta il dna anche dell’industria perché, sebbene produca in serie, lo fa con standard qualitativamente alti che hanno in qualche modo interiorizzato elementi artigianali; prodotti realizzati sì su scala, ma il saper fare italiano rimane sempre l’elemento centrale e caratterizzante tale attività. Il beneficio cadrebbe su tutti, non solo sugli artigiani. L’obiettivo finale è riconoscere la peculiarità e la manifattura italiana nella produzione, ricondurre l’impresa alla cultura. Abbiamo parlato per anni di finanza, quotazioni in borsa, business, dimenticando la cultura. E invece l’impresa italiana è strettamente legata alla cultura. Quante sono le aziende quotate in borsa? E quante sono le imprese operanti sul territorio? Occorre pensare anche alle piccole imprese, non solo alle più grandi, che poi spesso neanche producono in Italia e sono quotate in borsa. La borsa italiana pare che faccia un indice del made in Italy: è vero che molte di quelle aziende producono ad altissimi livelli con standard di qualità, ma è pur vero che alcune di queste hanno trasferito la loro produzione all’estero. Mi verrebbe in mente una provocazione: fare un indice finanziario  del made in Italy esclusivamente per chi realizza prodotti in Italia. Questa riflessione funziona perché riconduce l’impresa alla cultura e non alla finanza, che non può essere un fine ma un mezzo. Noi sosteniamo la figura dell’artigiano, del piccolo medio imprenditore, strettamente legato al proprio territorio in Italia, che ha una fortissima valenza culturale che va esaltata e sostenuta in maniera importante. Per esempio, non si possono mettere a lavorare gli artigiani di Gucci o di Ferragamo in Svizzera o in Germania, possono stare solo in Italia dove il microcosmo in cui operano risente dell’ambiente in cui si trovano, tra arte, tradizioni e storia. Oppure altri distretti industriali, quali quello calzaturiero, del cashmere, del mobile, della ceramica e tanti altri. Meritano tutti di avere una voce importante attraverso il made in Italy. Klaus Davi

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