Segni nel vuoto

Mercoledì, 03 Gennaio 2018,
Moda,
Fino a quando l’effimero non è assurto a dimensione esistenziale della contemporaneità, tra architettura e moda è sussistito un rapporto controverso, segnato da una reciproca diffidenza. Così come enunciato nell’incipit di Vers une architecture, laddove Le Corbusier, insensibile al rapporto di amicizia stabilito con lo stilista parigino Paul Poiret, ostenta senza ritegno il proprio disprezzo per le futilità modaiole, liquidando le piume che agghindano i cappellini delle signore della Belle Époque con una sentenza lapidaria (“c’est parfois joli, mais pas toujours et rien de plus”), che peraltro, nonostante una qualche contradditorietà implicita (la precarietà connaturata a edifici concepiti come manifesti ideologici è uno dei fondamenti della modernità), è condivisa all’unanimità dai principali esponenti del Movimento Moderno: Walter Gropius, Mies Van der Rohe e Alvar Aalto. L’unica voce controtendenza è quella di Adolf Loos: un architetto formatosi tra Vienna e Chicago, rinomato per l’eleganza e per la mondanità, che, negli stessi anni in cui si affermano le teorie lecorbuseriane, firma i migliori negozi di abbigliamento della Prima Repubblica Austriaca (in particolare Knize nonché Goldman & Salatsch) e, soprattutto, sdogana il nuovo fenomeno della moda con una lunga teoria di saggi e di articoli giornalistici (raccolti nel volume monografico Ins Leere gesprochen, pubblicato postumo in Italia con il titolo Parole nel vuoto) in cui analizza sistematicamente e cataloga tassonomicamente gli abbigliamenti utilizzati nei diversi paesi per evidenziare le differenze di gusto tra culture dissimili. Ciò che ne risulta è una vera e propria “filosofia dell’abbigliamento”, in virtù della quale Loos, anticipando di quasi cento anni un celebre aforisma di Giorgio Armani (“L'eleganza non è farsi notare, ma farsi ricordare”), distingue con lucidità stile e ornamento, affrancando definitivamente l’eleganza dall’eccentricità e dalla personalizzazione. Tanto nel caso degli abiti quanto nel caso delle abitazioni. Secondo Loos, infatti,“essere ben vestiti – ovvero essere vestiti in modo moderno piuttosto che in modo antiquato – significa essere vestiti in modo corretto”. Il che impone di bandire dal vocabolario aggettivi leziosi quali “bello”, “chic” e “audace”, perché “vestire in modo moderno significa prima di tutto dare il meno possibile nell’occhio”. Su questo punto Loos è chiarissimo. “Un frac rosso in una sala da ballo è vistoso. Di conseguenza il frac rosso in una sala da ballo è antiquato. Un cilindro in un campo di pattinaggio è vistoso. Di conseguenza il cilindro in un campo di pattinaggio è antiquato”. Quindi, conclude Loos, “un capo di abbigliamento è moderno se, quando lo indossiamo trovandoci nel centro della civiltà e nella migliore società, si dà il meno possibile nell’occhio”. Ma non è tutto. Loos, infatti, è talmente calato nel ruolo di vate della modernità da fondare una nuova rivista, titolata Das Andere (“L’Altro”) e volta a emancipare i lettori dalla leziosità di ogni forma di decorativismo fine a se stesso, orientandoli verso l’assimilazione dell’essenzialità occidentale, in cui dedica ampio spazio all’abbigliamento (cui riserva l’immagine di copertina) e predica una nuova metodologia progettuale, fondata sul dualismo interno/esterno, che annulla i tradizionali steccati tra moda e architettura, prefigurando abiti fatti come abitazioni e abitazioni fatte come abiti. Non a caso pochi anni dopo, il 23 gennaio 1931, si svolge a New York un insolito ballo in maschera in cui il gotha dell’architettura newyorkese dell’epoca, guidato da William van Alen (forte del successo riscosso dalla guglia del Chrisler Building), mette in scena in forma di tableau vivant lo skyline di New York, indossando abiti a ziggurat e coprendosi il capo con un modello plastico riproducente la propria opera più rappresentativa: un’iniziativa apparentemente ludica, ma in realtà profondamente virale. Perché la Fête Moderne svoltasi a Broadway nell’Hotel Astor, propagandata come “a fantasie in flame and silver” dove mostrare “something modernistic, futuristic, cubistic, altruistic, mystic, architistic and feministic”, chiude l’era dell’architetto-artigiano e apre l’era dell’architetto-stilista. Con buona pace di Adolf Loos. Paolo Belardi

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