Le farine: origini, usi e tipologie

Giovedì, 29 Gennaio 2015,
C’è farina e farina. Il vocabolo deriva da farro e sfarinato, genericamente è tutto quello che si ottiene dalla macinatura del grano. Il farro quindi è tra i più antichi frumenti coltivati, utilizzato dall’uomo fin dal Neolitico, tanto che lo troviamo citato anche nelle “Tavole eugubine” come moneta di scambio, a dimostrarne il valore e la vetustà. Ma esisteva sicuramente anche la farina di ghiande, anzi alcuni studiosi affermano che la antica polenta, la “puls” originaria, non fosse di farro, ma di ghiande e ritengono che la schiacciata di questo frutto, cotta sulle pietre roventi, fosse la prima preparazione culinaria dell’umanità. Non sorprende dunque se nei momenti di carestia l’uomo vi abbia fatto ricorso, proprio perché alimento già conosciuto. Come attesta la denuncia fatta alla Camera dei Deputati il 2 febbraio 1903 dall’illustre medico pesarese Angelo Celli: “Sapete che cosa mangiano in questo inverno molti nostri contadini? Le ghiande, come i maiali”. Le ghiande venivano bollite in acqua, poi si facevano asciugare bene e si portavano a sfarinare nel molino. Successivamente la farina veniva stacciata e la parte più fine era utilizzata per la panificazione: impastata con il lievito, l’acqua e il sale e confezionata in panetti che venivano fatti lievitare e cotti nel forno a legna. Quando erano disponibili l’uva passita e un bicchierino di mistrà, questi venivano aggiunti all’impasto, ottenendo un “pane della festa”. La farina di frumento rappresentava e rappresenta, se ottenuta dalla interezza del chicco cioè crusca, endosperma e germe, un ottimo elemento nutritivo, ricco di proteine, carboidrati complessi, fibre, vitamine, mentre la farina raffinata, privata della crusca e del germe che sono le componenti nutritive del grano, ci regala obesità, cattiva digestione e una inutile riserva di glucidi. In commercio troviamo la farina integrale, ottenuta dalla molitura di tutto il chicco ne conserva gli elementi nutritivi, ha un basso indice glicemico ed è ricca di fibre; le farine di tipo 2 e 1, che perdono circa il 15-20% del totale attraverso un processo chiamato “abburattamento”, con cui generalmente viene eliminata solo la crusca, quindi conservano ancora un buon valore nutritivo; la farina di tipo 0, a cui è stato tolto circa il 30% del suo valore nutrizionale; la farina di tipo 00 che perde il 50% del suo valore, cruschello, crusca, germe di grano e un sottile strato esterno di endosperma, e quindi è la farina più povera di nutrimento, ma appare bianca e bella. Oggi vi sono molti altri tipi di farina, anche in splendide miscele, dalle integrali alle più raffinate, ovviamente le prime sono le più salutari in assoluto, per ottenere pani diversi o diverse pizze o focacce dai sapori più disparati e dagli accostamenti più fantasiosi. Per sapere scegliere la farina giusta bisogna conoscerne le caratteristiche, le proprietà e la resa nella panificazione. Oltre la classica scelta tra farina di grano tenero o duro e la loro suddivisione a seconda dell’abburattamento, vi sono tante tipologie di farine ottenute da leguminose o da piante diverse che hanno creato o conservato nel tempo una miriade di prodotti regionali, come la farina di roveja per la “farecchiata”, la polenta della Valnerina; quella di mais per la classica polenta, e con il finissimo “fioretto” utilizzata soprattutto nei dolci tipici delle zone rurali o nel pan giallo di ricette regionali; quella di segale per i pani speciali, un tempo i pani contadini di montagna; la farina di miglio, quella di riso, ma anche la farina di grano saraceno che entra nella ricetta dei pizzoccheri della Valtellina o quella di canapa, utilizzata in una ricetta umbra quattrocentesca dei tortelli e recuperata e riproposta a Sant’Anatolia di Narco. E non dimentichiamo l’ottimo “pane di ghiande” che un agriturismo umbro di Vallo di Nera ancora oggi produce per la gioia degli affezionati clienti, soprattutto turisti che amano i sapori veri della Valnerina e si fermano per un tour di assaggi di prelibatezze locali.

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