Se la storia è nel piatto

Venerdì, 09 Ottobre 2015,
Quando la storia è nel piatto, comprendiamo che forse nessuno ha avuto le sue vicende di crescita e cambiamento fulmineo e profondo come il cibo, creando così a sua volta tante storie: quella della alimentazione, della cucina, della tavola, e infine la scienza del mangiar bene, la gastronomia. Perché il cibo è in fondo simbolo mentale, è infinite varianti, è ricchezza verbale ed estetica. Attraverso la sua codificazione in ricette possiamo vedere il susseguirsi delle  civiltà e delle epoche storiche, ma anche i valori sociali, le abitudini e le tendenze, in un certo periodo, di utenti diversi e come questi hanno fatto la  storia tramite le loro scelte. Così non vi è solo la storia del cibo, ma la storia nel cibo. Dalla gastronomia, intesa come “legge dello stomaco” che voleva regolare empiricamente le funzioni di questo organo umano, che appare per la prima volta nel poemetto Hedypàtheia di Archistrato di Gela ( IV secolo a.C), al De re coquinaria di Apicio, un testo classico di letteratura culinaria, si arriva finalmente al Medioevo per avere dei veri ricettari con studi specifici, dove appare il “gusto del piatto”. E dietro a questa nuova scoperta che si unisce alla considerazione del cibo come strumento politico, esibizione di potere, testimonianza di cultura, ricerca di salubrità, ma anche, e perché no, strumento di piacere come scelta di gusto, si delineerà la figura del cuoco. Colui che trasformerà per maestria, conoscenza del fuoco, per fama, per viaggi e scambi culturali, la materia prima in qualcosa di nuovo e di stupefacente per il signore, per la corte, per il piacere del singolo, e dovrà riproporre, ogniqualvolta si fosse reso necessario, quella mirabile ricetta che doveva quindi essere minuziosamente codificata. Mastro Martino ne è un esempio e dimostrerà – siamo nel tardo medioevo del XV secolo –  come nel creare  un piatto fosse necessaria anche una attenta conoscenza della materia prima del territorio, che privilegerà sempre nelle sue creazioni e nel famoso scritto Liber de arte coquinaria, conferendo alla culinaria il sigillo di “scienza della trasformazione”. E così profondo è in Umbria il Medioevo, con tracce evidenti in città che nello loro fisiognomica ricordano, ripercorrono, testimoniano quello che è stato erroneamente definito uno dei secoli bui e che invece ha illuminato di nuove intuizioni la storia  dell’umanità. Cinte murarie, strade, costruzioni e palazzi al chiuso di orti e giardini urbani, e opere di artisti e pittori che hanno fatto grande la nostra storia e quella dell’intero Paese. In questo periodo storico nello schema greco, “mediterraneo”, della famosa triade vino, olio e pane, si innesta la tradizione germanica dell’uso massiccio della carne e dei grassi animali, le nuove tecniche agricole e le produzioni cerealicole, che rassicuravano contro i pericoli di carestie, i prodotti giunti dai territori islamici – zucchero, riso, arance e limoni, albicocche, spinaci e melanzane – e soprattutto l’uso della frutta secca in cucina, le mandorle e il miracolo del marzapane e il profumato mondo delle spezie e il loro giusto equilibrio in piatti agrodolci che addestrarono i nasi alla scoperta del piacere in bocca. Il velluto leggero del latte di mandorla, ottenuto dal frullare oggi in modo appropriato questa frutta così diffusa anche dalle nostre parti, che un tempo, unito al brodo di “pollastre”, creava salutari “ brodetti” tipici degli hospitali, ancora oggi preparazioni da gustare, o l’eleganza che il pepe di Guinea donava e dona  alle preparazioni, magari unito a qualche goccia di  acqua di rose, o ancora l’insospettato interesse per la borragine o per la pimpinella, non più usate in cataplasmi, ma in verdi salse profumate. E ancora l’alleanza tra aspro, un tempo considerato gusto pericoloso e da evitare e il dolce, in armonico equilibrio; la presenza delle torte e dei pasticci, oggi leggerissime sfogliate, un  tempo costruzioni di raffinatezza e nello stesso tempo scrigni da aprire dinanzi ai commensali per suscitare stupore e meraviglia. Come se le grandiosità della tavola potesse rappresentare una grandiosità e magnanimità del sentire. Ovviamente sta a noi gastronomi e studiosi della culinaria, il rapportare la storia all’oggi, attualizzandola nel piatto, calibrandone l’appetibilità e adattando abilmente quelle ricette, che hanno scoperto un nuovo modo di intendere e utilizzare la materia prima, al gusto odierno. E allora scopriremo anche che la guarnizione che copriva il foro centrale di una famosa torta umbra, la “ciaramicola”, che nasce torcolo, cioè ciambella, e che per la sua glassa zuccherina e per l’aspetto bicolore del bianco e del rosso cittadino sembra appartenere proprio a questo periodo, in realtà mimava il graticolo merlettato dei rosoni gotici delle nostre chiese medievali che si aprono alla luce e al fascino di storie visualizzate in tanti riquadri. Quella luce che nel Medioevo è pura espressione del divino e che nella forma circolare rappresentava un perenne e perfetto divenire. 

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