La pittura onirica di Alessandro Bianchi Sicioldr

02.02.21 , Arte , Lucrezia Lucchetti

 

Visita grande

Classe 1990, scappato da un passato scientifico, una laurea in Informatica, e un padre artista nel cui studio apprende l’arte del disegno e della pittura, Alessandro Sicioldr, (vero cognome Bianchi) capovolge sulle tele delle visioni suggestive, oniriche, mitopoietiche, trasognanti, unendo tecniche antiche e contemporanee. Le sue risposte sono veloci, piene di informazioni e di energia. “Dovrà impostare la registrazione a 2x” mi dice scherzando, mentre si racconta con una passione inaudita, autentica, e con una gran voglia di spiegare il suo mondo, che sembra davvero staccato da quello dell’arte contemporanea, anzi del mondo contemporaneo. E non solo per uno stile comunicativo ricercato, antico (sarà per questo che ha attirato l’attenzione internazionale e le critiche annesse?), ma anche per i suoi mondi così lontani e irraggiungibili, e forse proprio per questo così desiderati, così vicini a ognuno di noi.

E allora occhi bene aperti su questo giovane dall’ossessione per la pittura.

Cominciamo da una curiosità. Il suo nome Sicioldr è inusuale. Ha qualche origine particolare? Perché lo ha scelto?

“Sì, è un nome d’arte, ma diciamo che non mi sono mai espresso con veridicità sulla sua origine. Ho dato mille spiegazioni diverse, ogni volta una bugia (ride ndr)”.

Come si è approcciato all’arte? Ho letto che suo padre è un artista e questo l’ha aiutato nell’avvicinarsi alla pittura. Ma cosa l’ha spinta ad intraprendere questa strada?

“Ne parlavo con un gallerista tempo fa. Il discorso è che non è mai nato Sicioldr, non è mai nata la ricerca artistica in un momento preciso. Bene o male c’è una continuità dai lavori dell’infanzia, dell’asilo, fino ad oggi. È cambiato l’approccio stilistico-compositivo, tecnico, ma faccio lo stesso lavoro che facevo quando disegnavo da bambino: invento direttamente sulla carta. La natura di quei mondi è rimasta sempre la stessa, paesaggi con figure strane, inventate, esseri immaginari, sono nato esprimendo l’immaginazione sulla carta. E la cosa divertente è che recentemente ho recuperato metodi che usavo all’asilo/elementari ovvero utilizzare la tela non come un progetto di costruzione di un’immagine, ma come un’altra dimensione, dove le immagini nascono e si muovono direttamente lì. È un’estensione del pensiero, riesco a creare immagini sulla tela a mano a mano che si rivelano nella mente, come se avessi il cervello collegato alla tela con l’USB. La matrice inventiva è sempre stata presente, come una diversa forma di sogno, che si esprime non come il classico sogno notturno, ma da svegli”.

Il sonno

Osservando a primo impatto le sue opere, i collegamenti diretti sono sicuramente la dimensione fiamminga visionaria di Hieronymus Bosch, ma anche il surrealismo di Max Ernst, e c’è anche tanto del simbolismo di Odilon Redon e Jean Delville. Conferma questi rimandi? Ci sono anche altre ispirazioni?

“Certo. Io ho una visione molto, come dire ribelle (?) rispetto a quella che è considerata la pratica della pittura oggi. Io sono a favore del non avere limiti nel poter prendere in prestito elementi da altri artisti, che non significa copiare. Il linguaggio pittorico si esprime molto a livello di cultura, non si inventa, altrimenti si trasformerebbe in un’immagine di poco valore, di poco spessore culturale. Normalmente lascio trapelare le influenze pittoriche che ho dentro, quelli che io chiamo i “grandi amori”, e li lascio agire e li interiorizzo. E spesso è un passaggio inconscio: capita anche con un pittore totalmente diverso da me, lo guardo, lo dimentico, e quando l’ho dimenticato, lo ritrovo nelle opere. Questa è una cosa importante che oggi purtroppo viene demonizzata. Ogni cosa diventa subito plagio, citazionismo, falsa riga di, ed è vista come una pratica sconveniente. Per quanto riguarda i riferimenti, Bosch lo è sicuramente, con la sua rappresentazione dello spirito medievale, un pandemonio di mostri e figurazioni grottesche che riesce ad oggettivizzare, trasformandole in qualcosa di solido, di plastico. Max Ernst invece, facendo un lungo salto temporale, è per me il surrealista più puro perché ha incarnato i principi del Surrealismo, ed è riuscito a tirare fuori quella parte di ombra, di inconscio, nata con l’Illuminismo e relegata da questo. La preziosità, la composizione sono invece il risultato di sguardi gettati a Piero della Francesca, Bellini, Beato Angelico. Sono ispirato a tutta questa linea di pensiero, la trovo affascinante e affine alla mia ricerca”.

Le sue opere sono immerse in dimensioni visionarie, oniriche, controverse, suggestive, in certi punti angoscianti, spaventose. Come ci è arrivato? Sono sogni? Immaginazioni?

“Non mi ritengo un Surrealista, paradossalmente, per questo. Nel Surrealismo l’automatismo era molto ricercato; essendo appena nata la psicanalisi, il concetto di inconscio era nuovo. Oggi la faccenda è più normalizzata, ci siamo abituati al fatto che esista una parte oscura della nostra mente. A me interessa la potenza che certe immagini inconsce possono avere. Io cerco di essere un regista che racconta una storia, e non un proiettore diretto sulla tela. La visione a volte può essere ermetica, poco determinata, chiusa, inaccessibile (quello che facevano i Surrealisti). Io invece cerco di comunicare un’immagine inconscia, e faccio sì che questa diventi leggibile, decodificabile. Ho chiamato una mia mostra il Teatro Capovolto, proprio perché i miei personaggi mettono su una messa in scena, sono abbigliati in maniera strana, è come se stessero rappresentando un concetto, un’idea. Mi sento molto vicino a Fellini in questa creazione della finzione che poi in realtà era il suo inconscio. Nelle mie opere non vi è niente di pericoloso o minaccioso, forse sono figure perturbanti semplicemente perché umane ma non ben ascrivibili, non etichettabili, ed è questo che affascina. Sicuramente sono immagini germinali, abissali, ognuno le vede a suo modo e gli dà la propria interpretazione. Fa parte del gioco”.

Parliamo un attimo delle tecniche. La maggior parte delle sue opere sono olio su tela, anche per riprendere quel concetto di minuzia fiamminga. Ho anche visto una serie di disegni che tradiscono un’attenzione per la tecnica del disegno e per la linea di contorno. I fiorentini consideravano il disegno un passaggio propedeutico per la resa finale della pittura. Anche per lei è lo stesso?

“Sono partito anche io con l’olio su tavola come i fiamminghi. La tela è una questione di modernità e comodità. Dietro molte scelte artistiche c’è quasi sempre una questione di pratica, del resto l’arte è poesia e artigianato. Funziona così anche per le tecniche antiche: non che io abbia una fascinazione particolare, semplicemente in passato servivano a rendere i quadri molto belli esteticamente, e questo concetto io l’ho riutilizzato. Oggi la prerogativa è quella di avere opere ben trasportabili, comode, in cui i pigmenti permangano il più possibile. Tornare indietro è solo una ricerca di qualità. Non sono nostalgico, semplicemente è una stratificazione necessaria per avere un bel quadro. Per quanto riguarda il disegno, adesso disegno in maniera molto più libera, e slegata. Prima pianificavo, non avendo fatto studi accademici, era un modo per gestire il quadro. Era disegnando che imparavo. Ma il disegno è astrazione della mente che crea, non è ricalcare, fotografare e copiare, ha una parte di interpretazione molto ampia al suo interno. Uso molto meno il disegno preparatorio se era questo che intendevi chiedermi, continuo invece ad usare il disegno come filtro, come manipolazione della realtà”.

Vanta 60.000 follower su Instagram e varie esibizioni sia collettive che personali (nella Bio del suo sito trovate tutto ndr) tra Roma, Bologna, Milano, ma anche Parigi, San Francisco, New York. Perché la sua arte piace tanto? Pensa di aver trovato la chiave di volta?

“Io dico sempre che sono cresciuto come una pianta spontanea, fino a pochi anni fa non ero neanche cosciente di quello che succedeva nel mercato dell’arte. Avrei fatto comunque il pittore; non ho ma pensato di cosa ha bisogno l’arte? Cosa si può fare di nuovo in pittura? La mia ricerca è sempre stata naturale, e le critiche che ricevo sono sempre legate allo stile, più che al contenuto e al soggetto. E questo mi sorprende: mi rendo conto che io non c’entro niente col mercato dell’arte, con quello che va di moda. Veramente quando mi chiamano in certe gallerie mi dico: ma cosa c’entro io? (sorride ndr) Effettivamente faccio una ricerca che ignora quello che vuole l’arte. La pittura è per me un’azione a sé, un artista non deve lavorare per soddisfare questa divinità cieca, misteriosa che è l’arte. Questo è uno dei motivi che contiene la mia novità. Oggi la moda dell’arte è molto specifica, c’è un accademicismo molto radicato, ci sono pittori il cui successo spinge inevitabilmente più di altri, e tanti giovani cercano di andare in quella strada, pensando che sia la giusta strada, e ignorando che quei pittori, artisti, scultori bravi, hanno seguito loro stessi, la loro indole e hanno creato un’estetica che è personalissima. L’arte per un artista dovrebbe secondo me portare a conoscere sé stessi”.

Processione provvisoria

E per quanto riguarda i Social?

“I social oggi consentono una condivisione globale e istantanea, e certi schemi tipici del mondo dell’arte sono caduti. C’è una divisone incredibile tra l’opera che ha un’influenza sulla cultura in generale e chi solo su un’elitè molto ristretta di operatori del settore, critici, addetti, e non so se queste due visioni convergeranno mai. Per quanto riguarda la mia arte, avendo scene e figure fuori dal tempo, una tecnica anche fuori dal tempo che è un pasticcio di stili non ben collocabile, ho tolto le barriere interpretative. Viviamo in un’epoca storica in cui stanno cadendo tanti rigidi preconcetti, come essere maschio o femmina o altro, e i Social pongono molta attenzione su questo. Le mie figure sono tutte androgine, non ci sono vestiti da maschio o da femmina. In questo limbo che non so neanche io se è un pre-nascita, un post-mortem, conta la scena, la figura a prescindere. E questo porta interesse. Sicuramente ci sono immagini più potenti, più archetipiche di altre, e il mio pubblico che è molto eterogeneo le riconosce. Io comunico al mio essere umano che è poi l’essere umano in generale che sia Giapponese, Africano, Inglese, Italiano. Una volta un ragazzo di Teheran mi ha detto: “è come se tu fossi entrato in uno dei miei sogni!”, e io non sono mai neanche stato a Teheran”.

Può, anzi deve essere considerato un artista contemporaneo. Sente di appartenere a questa corrente?

“Per il mercato dell’arte oggi l’artista è libero di fare tutto, tranne che il quadro, tranne che guardare al passato. Il quadro fa litigare. E questo dimostra quanto sia fallace questo finto pluralismo per cui qualsiasi cosa è arte nella nostra contemporaneità. Sono accusato di essere un reazionario, ma il mio non è un ritorno alla tradizione, è progressismo. C’è originalità, c’è avanguardia nella scelta della figurazione. E poi le mie figure sono quasi aliene, non potrebbero essere rappresentate in un altro momento che non sia quello contemporaneo. Sono una persona perfettamente inserita nel mio tempo: uso i social, guardo Netflix, rido dei meme, semplicemente ho scelto il ritorno alla tela come cifra di produzione, perché è così che mi sento libero, che mi trovo bene. Il mercato dell’arte ha le sue forme di repressione, di fascismo, questo è il punto debole della catena e quando l’arte crea discussioni infinite allora ha fatto il suo lavoro. Allora è arte”.

Cos’è per lei fare Arte oggi?

“Quando un artista è onesto, sincero con sé stesso, quando fa qualcosa che gli piace, allora va bene. Questo dovrebbe essere l’unico parametro per giudicare un artista. Anche se fai una replica, e sei onesto, se ti piace, se è quella la tua libertà, se rispondi alle tue volontà, allora è ok. Non è sbagliata la replica in sé, l’imitazione di chi è venuto prima di te, è sbagliato se la replica mira a piacere per forza, a rispondere a interessi economici. Oggi è essere originali, partire da sé stessi che significa andare controcorrente. L’artista è individuale, e se l’arte contemporanea va in una sola direzione, porta automaticamente a creare delle mode. Le mostre dovrebbero essere un insieme di esperienze eterogenee, un caos totale (ride ndr) invece oggi si cerca di fare una selezione quasi di replicanti, di omologare, di rendere tutto innocuo, rispondente a certi criteri. Ecco perché mi sento un po’ fuori da questo mondo, un pesce fuor d’acqua!”.

A cosa sta lavorando adesso?

“Ad una serie di piccoli lavori. Ho fatto un 2020 ritirato di quarantena dove ho lavorato a grandi tele per una scelta personale e adesso farò una mostra con il mio gallerista di Milano. Saranno sempre queste figure abbigliate in maniera strana che compiono gesti incomprensibili”.

 

Arte Articoli Precedenti

PRECEDENTI

PRECEDENTI

IN EVIDENZA

IN EVIDENZA

NUOVI

NUOVI