Piero Manzoni e Mario Schifano tra Pop Art e precorrimenti concettuali

05.10.21 , Arte , Valeria Torchio

 

Piero Manzoni (foto a sinistra) e Mario Schifano (foto a destra)

Attraverso due grandi nomi della storia dell’arte italiana, circa sessant’anni fa, ci siamo potuti porre quali spettatori dell’incontro tra Pop Art ed il preludio dell’Arte concettuale. Propriamente, stiamo parlando di Piero Manzoni (Soncino, 1933 – Milano, 1963) e Mario Schifano (Homs, 1934 – Roma, 1998). È curioso come due esperienze contrapposte tra loro riescano, mediante i suddetti artisti, a conciliarsi e a dar vita ad una commistione talmente coerente ed armoniosa da risultare, addirittura, essa stessa una corrente a parte, slegata dalla relazione tra due singole entità. Focalizzandoci sull’antitesi di queste due esperienze, l’Arte concettuale, intorno agli anni Sessanta, mediante alcune ricerche assolutamente innovative portate avanti da intellettuali, reagì all’indigestione di oggetti e volti da consumare proposti dalla Pop Art. Questi studi, andarono nella direzione di un’arte “fredda” e semplificata, ovvero svincolata da qualsiasi tipo di suggestione o compiacimento visivi. Si trattava di una forma di comunicazione volutamente e prepotentemente antiartistica, nella quale gli oggetti diventavano così poco rilevanti da sparire o, comunque, da ridursi a semplici idee. Come la colorata ripetitività e serialità del Pop aveva posto in primo piano i prodotti di consumo, gli artisti concettuali ribaltarono completamente la situazione, cercando di mettere in risalto l’idea rispetto all’oggetto. Dopo questo preambolo, risulta impossibile concepire un sodalizio tra questi due poli opposti.

Piero Manzoni e la delegittimazione dell’arte come valore capitalistico

Piero Manzoni aveva due punti di contatto con Andy Warhol, rappresentante della Pop Art. Aveva imposto, prima di quest’ultimo, la figura dell’artista come icona vivente e, le note 90 scatolette impiegate per la sua dissacrante, quanto provocatoria, opera “Merda d’artista”, rappresentavano la risposta italiana alle zuppe di Warhol, con la differenza che, nel caso di Manzoni, il prodotto era stato pensato e realizzato ex novo dentro e fuori, mentre il capostipite della Pop Art aveva adoperato lattine prodotte in serie. Ed è proprio la suddetta opera manzoniana a rappresentare l’incontro tra le due esperienze artistiche. “Merda d’artista” (1961) simboleggiava l’emblema della delegittimazione dell’arte intesa come oggetto di mercato e, di conseguenza, come valore capitalistico. Consisteva in una serie di piccoli contenitori metallici del tipo di quelli per conservare la carne in scatola, al cui interno Manzoni aveva sigillato i propri escrementi. Questo è quello che apprendiamo dall’esauriente etichetta quadrilingue, anche se aveva lasciato insoluto il dubbio: tuttora non si è venuti ancora a conoscenza del contenuto. Su di essa, non diversamente da un qualsiasi altro prodotto commerciale, erano addirittura riportati il peso netto, la data di produzione e di inscatolamento, oltre alle prescritte assicurazioni di tipo igienico. Sul coperchio, infine, apparivano stampigliati i numeri progressivi di serie e l’immancabile firma autografa, a ennesima e ironica riconferma di come, nella mentalità corrente, il valore artistico di ogni oggetto risiedeva sempre e comunque nella firma che ne autenticava l’originalità. Con questa evidente provocazione, Manzoni tentò di rompere definitivamente il rapporto opera-firma-valore, cercando di farci intendere come, in realtà, ogni operazione artistica sia di per sé mistificatoria. Di fatto, è sempre e comunque la firma che qualifica, e non l’opera in sé che, anzi, assume maggiore o minor pregio solo in funzione della maggiore o minore certezza dell’attribuzione. In fin dei conti, gli escrementi rimangono pur sempre escrementi anche se firmati, sembra voler suggerire l’artista. È attraverso questo concetto che risiede il fil rouge che lega l’opera a quella che sarà l’Arte concettuale.

"Merda d'artista" di Piero Manzoni (scatola in metallo con etichetta numerata e firma sul coperchio, 1961)

Mario Schifano e i suoi messaggi a tema sociale proposti mediante l’intervento apportato sugli emblemi della società di massa

Mario Schifano, contrariamente a Piero Manzoni, era connesso meno sottilmente e, quindi, più deliberatamente alla Pop Art. Questo perché non riproduceva ex novo un’opera in risposta alla cultura Pop, ma apportava modifiche alle raffigurazioni ed emblemi già esistenti tipici dell’esperienza artistica sopracitata. Mediante la manipolazione delle rappresentazioni di massa, l’artista intendeva promuovere dei concetti sociali, precorrendo, in questo modo, l’Arte concettuale. Nello specifico, tra il 1962 e il 1964, nell’ambito Pop, egli si appropriò dei consueti simboli della società di massa, intervenendovi sopra con segni violenti e decisi al fine di contraddirne o, addirittura, di azzerarne il significato primitivo. A questa fase, apparteneva “Particolare propaganda” (1963-1964). L’opera in questione, simulava uno studio preparatorio per la realizzazione di una scritta pubblicitaria per la Coca-Cola, attingendo in tal modo a quello che, anche in Italia, stava diventando uno degli emblemi del progresso e del consumismo americani. Il messaggio che voleva inculcare era palese: qualsiasi processo di comunicazione poteva ormai avvenire solo attraverso i simboli della società di massa, i soli che, essendo da tutti immediatamente riconoscibili, potevano ricondurre l’arte a una sua universalità espressiva.

"Particolare propaganda" di Mario Schifano (smalto e carboncino su tela, 1963-1964)

 

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