Classico Futuro, la mostra di Giuliano Giuman sul vetro che ricorda e rivela

16.11.20 , Arte , Lucrezia Lucchetti

 

Classico Futuro, la mostra di Giuliano Giuman sul vetro che ricorda e rivela

Incontro il Maestro Giuman all’interno della Gipsoteca del Museo dell’Accademia delle Belle Arti di Perugia, nel corso della sua mostra Classico Futuro. L’esposizione è a cura di Aldo Iori docente di Storia dell’Arte contemporanea e di Giovanni Manuali Conservatore dei Beni dell’Accademia (dal 7 ottobre all’8 novembre 2020). La barba e i capelli incolti di Giuliano Giuman sbucano irriverenti da sotto la mascherina, come gli occhi azzurri e curiosi, vispi, che si addicono al cliché dell’artista. Mi sorprende la sua agilità nel rialzarsi dalle snodate posizioni che assume per fotografare al meglio le opere della sua mostra. Gli faccio i complimenti, ci scambio due chiacchiere e lui gentilissimo mi dà il suo recapito per rispondere alle mie domande. Lo chiamo qualche giorno dopo. Mi parla al telefono in modo chiaro senza troppe pause. La voce non tradisce né fretta né disinteresse, ma è profonda, carica di tanta esperienza che non ha la superbia di venire fuori per forza, ma solo il piacere di essere ascoltata.

Maestro Giuman, la sua mostra si intitola Classico Futuro; da dove viene l’idea di questo ossimoro e in che modo si spiega attraverso le opere.

“Allora intanto io mi considero un artista di ricerca e non di mercato. Le rispondo grazie ad una presentazione che mi ha fatto Bruno Munari in occasione di una mostra che ho fatto a Brescia nel 1975 nel catalogo e finisce così: “Qui c’è solo una parte delle operazioni che Giuliano Giuman ha fatto per rendere visibili i suoi studi sulla fenomenologia delle ombre. Dice il signor Nemo -ma a che cosa serve tutto ciò? -Lo vedremo alla fine degli esperimenti; può essere un sistema per visualizzare il tempo, che forma globale hanno cinque punti di ombre di un certo oggetto? Un vero ricercatore non si domanda mai a che cosa serva, si chiederà poi se l’esperimento è stato condotto bene, quali risultati ha dato”. Questa mostra Classico Futuro è la sintesi del mio percorso artistico che dura da ben 56 anni. Ho cominciato nel 1964 il mio primo quadretto e qui ho utilizzato tutti gli elementi di ricerca del mio percorso artistico. C’è olio su tela, c’è la fotografia degli anni 70’ così come la luce e l’installazione, e la pittura su vetro che avrà un fuoco dagli anni 80’ in poi. Ci sono tutte le esperienze che ho fatto. Cinque anni fa ho fatto una mostra alla Galleria Nazionale dell’Umbria dal titolo Last Time, ed era solo vetro. Pensavo fosse l’ultima ma mi sbagliavo. Questa invece è una summa di tutto ciò che ho assorbito, imparato, costruito. L’ossimoro Classico futuro perché mi è venuto in mente di esporre in questo museo che ho impostato io così nel 2012 e quindi lo conosco bene. Ho fatto un omaggio all’Accademia attraverso la figurazione delle opere classiche”.

L’esposizione si snoda in due parti, una presso la Sala dell’Ercole e una presso il museo. C’è una logica dietro questo?

“Al piano superiore presso il Museo le opere sono in consonanza con le Statue della Gipsoteca, mentre nella Sala dell’Ercole, la prima sala della mostra, c’è una parte interamente astratta che solo successivamente si evolve e diventa figurativa. In più nel movimento di questa esposizione mi sono resa conto che le opere del Museo erano poche e ho deciso di colmare questa lacuna con altre da esporre nella sala al piano inferiore, ma rientra sempre in questo percorso fluido di ricerca”.

Maestro ci spiega la tecnica usata nelle sue opere?

“Ho recuperato la fotografia in maniera oggettiva rendendomi conto che poteva essermi utile in modo astratto. Tutto è sempre stato pensato come un lavoro di ombre, e di trasparenza importante nell’esito finale. Quando un collezionista mi diede la possibilità di fare una vetrata a casa sua a Milano, usai dei colori primari su tre pannelli che si sovrapponevano ed era una pittura a freddo su plexiglas. La ricerca – (Giuman usa spesso questa parola nel corso dell’intervista) è poi andata avanti. Prima ho cominciato prendendo un piccolo forno fatto apposta, quindi l’indagine artistica da concettuale è diventata anche tecnica. Da qui all’inizio la continua sperimentazione con vetri rotti, poi le grandi vetrate e altri lavori”.

Le sue opere presentano dettagli delle statue classiche che sono esposte nella sala dei calchi e dei gessi. Come nascono questi lavori? E qual è il senso di questa commistione e contestualizzazione non solo tra classico e futuro, tra antico e moderno, ma anche nei materiali?

“Sì, il tema della mostra è proprio quello del museo della pinacoteca. È una scelta di colloquio estetica con la fotografia. Intanto uso sempre fotografie scattate in bianco e nero e poi stampate con lo stampo che ho io, e poi alcune cose sono più suggerite e altre più descritte. Ma non sono mai manipolate, non uso photoshop. Le foto dei miei lavori sono pulite come sono scattate. Faccio tanti scatti e poi uso quella che mi emoziona di più. Le opere recano le foto sotto il vetro dalla copia della Venere di Milo, del Discobolo di Mirone, dai marmi di Antonio Canova e poi di Michelangelo, Vicar e Thorvaldsen. Riecheggiano i calchi meravigliosi di cui è piena la gipsoteca che a loro volta sono copie di marmi antichissimi”.

Lei è stato per tre anni direttore dell’Accademia delle Belle Arti di Perugia, che è sede della mostra. Qual è il suo rapporto con questa istituzione e anche con la città di Perugia dove ha il suo studio?  So anche che ha curato lei la riorganizzazione della Gipsoteca nel 2012 che richiama quella di Antonio Canova a Possagno, e di cui tra l’altro è presente qualche originale.

“Ha visto quell’ascia che spacca il vetro nella sala al piano inferiore? Ecco quell’opera si chiama Urlo, ed è legata all’Accademia perché è il primo lavoro che ho fatto dopo che ho lasciato la dirigenza. In tre anni non ho prodotto neanche un lavoro. E come se lei per tre anni non scrivesse niente (ride). Quell’opera si chiama Urlo proprio perché sancisce la mia liberazione e il ritorno a poter creare; l’Accademia era a pezzi e stava per chiudere; mi ci sono buttato anima e corpo, è stata proprio una sfida che ho affrontato con enorme dedizione e piacere, e questo impegno ha assorbito tutto il mio tempo e le mie energie. Ma la creazione mi mancava tantissimo. Io sono un artista. Mi sono preso una pausa, ma dovevo ritornare a produrre. Cosa le dico qui a Perugia permane la vita di provincia, e per uno che è stato a Milano fino al 2007 si sente, ma ho tutto sommato un buon rapporto con la città. Qui ho anche il mio studio in Via della Viola”.

Ed ora qualche domanda più personale: che significa essere artista oggi?

“Credo che oggi ci sia un caos incredibile, nel senso che c’è molto pressapochismo. Prima quelli che volevano diventare artisti si informavano, studiavano, cercavano di crearsi delle basi, uno oggi si addormenta, sogna e la mattina dopo si sveglia che vuole fare l’artista. È tutto un discorso di una cosa che si muove velocemente. E penso anche ai giovani…Negli anni 70-80 facevamo delle mostre, anche se non ci sono conosceva di persona, ci conoscevamo attraverso le opere. C’era quella che si chiama poetica, quella che unisce Van Gogh e Gauguin per cui se capisci uno capisci anche l’altro. Oggi è tutto troppo veloce, e non è identificabile. Una volta c’era l’avanguardia, poi c’era l’Accademia, poi c’erano quelli che guardavano indietro e le aree erano molto ben definite, in una di queste ti potevi riconoscere. Si lavorava a livello di musica o di pittura, certo senza escludere delle commistioni, ma era tutto ben determinabile. Adesso è tutto verticale, tutto talmente veloce che non si riesce ad andare in profondità. L’arte del resto rappresenta la società nel quale vive, e questo ci dimostra una società troppo rapida e poco profonda. Il mercato ha poi stravolto qualunque valutazione.

In un mondo come il nostro in cui viviamo credendo in qualunque cosa, in particolar modo siamo vittime del continuo bombardamento delle immagini a cui siamo sottoposti, esiste un fare arte che sia autentico, profondo e che si distingua da ciò che non lo è? C’è ancora la possibilità di salvaguardare l’arte dalla meccanicità e dalla freddezza di pensiero che ci invade in cui pensiamo che ciò che serva sia solo ciò che risulta utile nell’immediatezza?

“Beh è difficilissimo, perché una volta… Io dico sempre una volta perché mi capisca, ho 76 anni, mi viene normale dire così. Ma una volta a trent’anni se io facevo un’opera e c’era un giapponese che la faceva uguale io mi dovevo documentare per capire chi l’aveva fatta prima. Copiare era l’onta maggiore, era un problema, ti svalutava. Oggi questo non c’è più, ognuno si copia dall’altro, non c’è più la ricerca del: ‘deve piacere prima a me’, non c’è più l’ambizione di creare uno spazio che sia tuo, che sia diverso, che sia valido. E questo rovina tutto, non crea autenticità, verità, non rende l’artista ben definibile. E questo è anche colpa del mercato che ha creato la riproduzione e l’ha resa vincente e immortale”.

Saluto e ringrazio il Maestro Giuman per la sua disponibilità e gentilezza. Chiudo il telefono e mi rendo conto di aver perfettamente compreso attraverso le opere che ho visto e le sue parole, che questo dualismo è parte del vissuto, dell’umanità intera, come ragione e sentimento, come antico e moderno, come apollineo e dionisiaco, due entità legate a doppio filo, due poli che si contrappongono e si sovrappongono. E questa ricerca continua che trova spazio e tempo nel ‘futuro’, può essere frutto solo di un ascolto serrato e intenso alle opere e alle esperienze precedenti. Rendendo maturo ciò che ieri lo era solo in parte, modificandolo e restituendolo fruibile domani, nell’arte come nella vita.

 

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