Arte profetica nel periodo pandemico

19.04.21 , Arte , Valeria Torchio

 

Edvard Munch, Giorgio de Chirico, Francis Bacon

Nel corso dei secoli, in innumerevoli circostanze, l’arte si è rivelata premonitrice di accadimenti storici, culturali o sociologici, inducendo lo spettatore, a posteriori, a ritrovarsi o a rispecchiarsi in un’opera artistica denotata, in tal senso, quale “contemporanea”, poiché riflettente circostanze attuali. Non costituisce un’eccezione il periodo delicato che stiamo vivendo, le cui sensazioni ed emozioni derivanti sono state riprodotte profeticamente a partire da più di un secolo fa fino a circa cinquant’anni fa. Gli artefici di tali proposte artistiche sono: Edvard Munch, Giorgio de Chirico e Francis Bacon. Tre artisti di tre periodi differenti, appartenenti a correnti e movimenti artistici diversi e rappresentanti sensazioni dissimili, accomunate, però, dalla contemporaneità. Nessuno più di loro è riuscito a dare densità e materia ad elementi per loro natura intangibili come sono i tumulti dell’anima, l’incertezza e l’inquietudine. Rispettivamente, Munch rievoca l’isolamento e l’alienazione, de Chirico lo stato d’attesa e Bacon l’oppressione e la mancanza di libertà d’azione.

Il concetto di alienazione di Edvard Munch: l’arte riflette il periodo pandemico

Uno dei primi e più significativi esponenti della pittura espressionista europea è stato Edvard Munch (1863-1944). In lui, si ritrovano tutti i grandi temi sociali e psicologici del tempo, estremamente attuali: dall’incertezza del futuro alla dissimulazione della società, dalla solitudine umana all’angoscia esistenziale e, ancora, la crisi dei valori. Ne è un esempio “Sera sul Viale Karl Johann” (1892) velatamente autobiografico. Nell’olio su tela, l’artista interpreta il rito del passeggio da parte dei borghesi. Munch rinvia a un’orrida processione di spettri alienati e “lobotomizzati” dagli occhi sbarrati, accomunati da pregnanti e quasi tangibili passività ed inerzia. All’interno di questo quadro, si assiste a una “sfilata di burattini”, privi della propria singolarità, incapaci di intendere e di volere, sorvegliati dal “burattinaio” incarnato dal Parlamento, le cui finestre innaturalmente gialle sembrano occhi sinistri che controllano che tutto vada secondo gli schemi prestabiliti. Unico elemento di disarmonia, dunque di opposizione, è la figura che si incammina sulla destra, ombra incerta e solitaria. Nel simbolismo munchiano, essa rappresenta l’artista stesso, colui che, incurante del consenso della massa, rema contro corrente. Di costui non scorgiamo il volto, ma possiamo esser certi che avrà il volto di un uomo e non di uno scheletro alienato. Quest’opera rievoca l’alienazione cui siamo soggetti in questo periodo.

"Sera sul Viale Karl Johann" (1892), olio su tela di Edvard Munch

Giorgio de Chirico e il rimando angosciante della sensazione di attesa

Continuando la disamina in ordine cronologico, ci imbattiamo in Giorgio de Chirico (1888-1978), l’artista-emblema, nonché fondatore della Metafisica italiana. Le sue opere vertono intorno alla commistione tra filosofia e arte e sul concetto di enigma. Il silenzio che regna sovrano e il tempo sospeso, sono gli ingredienti di cui de Chirico si serve per prospettarci una realtà diversa da quella usuale, metafisica, appunto. La concezione di attesa (tutt’ora attuale e pregnante), la riscontriamo prevalentemente in un’opera, “L’enigma dell’ora” (1911), il primo dipinto propriamente metafisico dell’artista. Un porticato occupa quasi l’intero spazio della tela. Nella sua ombra densa, una figura umana immobile aspetta, insieme ad un’altra posta sotto il porticato. I due uomini immobili (forse lì da sempre) e l’orologio che indica l’ora, stabiliscono con l’osservatore un rapporto d’attesa. Attesa di un evento sconosciuto, enigmatico, che apparentemente sta per compiersi ma che, probabilmente, non si compirà mai. Anche il tempo si è fermato e aspetta nel silenzio di una piazza.

L'enigma dell'ora (1911), olio su tela, Giorgio de Chirico

L’oppressione dell’essere umano odierna di Francis Bacon

Una posizione a parte, solitaria e alquanto singolare, è quella assunta da Francis Bacon (1909-1992), formatosi da autodidatta. Pioniere della cosiddetta Nuova Figurazione inglese animata, malgrado lui si ritenesse un surrealista può, a tratti, inoltre trovare una connessione con l’arte Informale. L’Informale dell’artista, non consiste tanto nell’assenza di figurazione, ma in una figurazione orribile e distorta, all’interno della quale predilige rappresentare esseri umani soli, angosciati, derelitti e degradati. Bacon ha raccontato nei suoi dipinti l’oppressione dell’essere umano, la sua esistenza angosciante vissuta in angoli chiusi, senza aperture verso l’esterno e verso il mondo. Le sue figure deformate, prigioniere di quinte senza sbocchi, rappresentano il resoconto perfetto della vita al tempo della pandemia. Quasi una cronaca espressionista del nostro quotidiano, o almeno del quotidiano di molti di noi. Un esempio emblematico è l’olio su tela “Autoritratto” (1956). Nel dipinto, scorgiamo l’artista stesso quale figura umana smarrita e sfigurata, “imprigionato” in un’area delimitata. Costretto all’interno di uno spazio angusto, “soffocante”, si è rappresentato come un animale senza pace, in gabbia appunto, in balia del dolore e della paura, andando, così, a delineare l’uomo moderno.

Autoritratto (1956), olio su tela, Francis Bacon

 

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