Arte contemporanea, l’incontro (quasi) mancato tra Italia e Corea del Sud

01.06.20 , Arte , Samantha Chia

 

Arte contemporanea, l’incontro (quasi) mancato tra Italia e Corea del Sud

Italia e Corea del Sud sono stati tra i due Paesi al mondo maggiormente colpiti dall’emergenza Covid-19, da mesi guardiamo al modello adottato dalla piccola penisola dell’estremo Oriente per affrontare l’emergenza, comparandolo con il nostro. Questo è il confronto più triste e difficile che si è dovuto affrontare. Ma ce n’è un altro che è in corso ormai da tempo, ed è quello con la scena artistica contemporanea coreana. Un confronto di altra natura, non doloroso ed estenuante, ma carico di potenzialità ed entusiasmo.
L’arte contemporanea coreana ha fatto il suo ingresso nella scena internazionale soprattutto dagli anni Novanta, prima negli Stati Uniti, poi in Europa. L’apertura del padiglione Corea alla Biennale di Venezia nel 1995 ha in qualche modo sancito questo ingresso. Tuttavia, se si esce dalla cerchia di esperti e cultori d’arte e si chiede al grande pubblico il nome di qualche artista coreano, è molto probabile che calerà il silenzio (con forse la sola grande eccezione di Nam June Paik, simbolo di una generazione di coreani trasferitasi oltreoceano e considerato il fondatore della Video Art).

Il pubblico italiano non ha avuto grandi occasioni d’incontro sul territorio -al di fuori del colosso Biennale- con gli artisti contemporanei del secolo scorso, che hanno incarnato i veloci cambiamenti politici e sociali della Corea e portato avanti una ricerca identitaria attraverso l’arte e la cultura.
Negli ultimi anni si sta sviluppando un maggiore interesse per la tigre asiatica rimasta sempre un po’ più nell’ombra. Quella della Corea è un’arte che da più di mezzo secolo è impegnata nella ricerca di sé stessa e delle proprie peculiarità e lo fa a intermittenza attraverso il rifiuto, e poi il recupero, delle proprie matrici culturali.
In questo senso, la prima personale in Italia dell’artista Geumhyung Jeong Upgrade in Progress alla Palazzina dei Giardini a Modena e la mostra Il Gesto dell’oriente alla Dep Gallery di Milano, che dovevano aprire proprio quando il lockdown è stato decretato in tutta Italia, rappresentavano due occasioni interessanti di scoperta e di dialogo nei luoghi della nostra di cultura. Occasioni che, nonostante tutto, non sono andate totalmente perdute.


L’artista coreana Geumhyung Jeong, classe 1980, aveva appena inaugurato la sua personale il 6 marzo, che la mostra è stata chiusa due giorni dopo. Fortunatamente dal 18 maggio fino al 28 di giugno è di nuovo aperta al pubblico ed è così possibile esplorare il lavoro di ricerca di Jeong. L’artista è anche danzatrice e coreografa, nota per le sue performance e installazioni e per un utilizzo ibrido di vari media e pratiche artistiche. Il suo lavoro è focalizzato sul rapporto tra il corpo e la tecnologia, tra l’uomo e la natura. Quella di Modena è la terza parte di un progetto intitolato Homemade Rc Toy iniziato alla Kunsthalle Basel, che vede nella cornice della palazzina dei Giardini animarsi una serie di sculture robotiche controllate da remoto, le cui parti sono assemblate in maniera inusuale. Ciò rende questi “manichini” ironici e lontani dall’ideale cyborg, perfetto, splendente, esagerato e patinato (questi temi, così come il modello cyborg, non sono nuovi in Corea, ricordiamo per esempio le donne cyborg “menomate” dell’artista Lee Bul). La palazzina, palcoscenico dell’esposizione, si trova all’interno di Palazzo Ducale, costruita nel XVII secolo da Francesco I d’Este come “casino” per la corte estense.

L’incontro tra un’architettura del Seicento e l’opera site specific di un’artista coreana contemporanea permette di apprezzare sia l’opera che l’edificio con occhi nuovi.
Se la mostra di Modena presenta al pubblico italiano una delle voci più attuali del panorama artistico coreano, la giovane Dep Gallery di Milano con Il Gesto dell’Oriente aveva intenzione di mettere in mostra i movimenti artistici che hanno preso nuovo vigore in Corea dagli anni Cinquanta, attraverso il lavoro di cinque artisti rappresentativi: Chun Kwang Young, Park Seo-Boo, Lee Bae, Lee Ufan e Kim Tschang-Yeul.
Se si vuole seguire un percorso cronologico per capire dove si è approdati oggi, è da questa mostra che bisogna partire: in questi lavori emerge il tormentato contrasto tra tradizione e rinnovamento. Gli artisti fanno parte della “vecchia guardia”, nati tra gli anni Venti e Cinquanta, quando la Corea era ancora unita, prima di venire divisa da una guerra fratricida.

L’esposizione doveva essere aperta dal 3 marzo al 9 maggio, purtroppo abbiamo potuto averne un assaggio solo attraverso video, immagini, descrizioni e dichiarazioni condivise dalla Dep Gallery e dalle gallerie coreane che hanno collaborato con quella milanese. Questa condivisione di contenuti ha permesso di inquadrare l’origine dell’arte contemporanea in Corea, ma quando si tratta di pittura la riproduzione video e fotografica non potrà mai compensare pienamente l’esperienza unica e individuale che si vive davanti al colore, alla materia, al materiale. Questo è il rammarico più grande che rimane davanti alla chiusura. Dall’altro lato, i contenuti ci lasciano un’immensa curiosità e voglia di vivere l’esperienza con l’opera in prima persona. Questa mostra, che è realmente esistita ma solo per gli addetti ai lavori, può considerarsi uno spunto da cui partire per addentrarsi nella scoperta di un panorama artistico originale e poco noto. Finalmente oggi possiamo farlo anche rimanendo nelle nostre città.

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