Tomorrow’s shelter

I modelli utopici emergenziali di Didier Faustino tra arte, architettura e design

07.08.19 , Architettura , Collaboratore Riflesso

 

Tomorrow’s shelter

Quale spazio abiteremo domani? A questo interrogativo, al contempo progettuale e filosofico, si propone di fornire una risposta la serie di opere (titolata non a caso Tomorrow’s shelter) di Didier Fiuza Faustino, progettista poliedrico il cui lavoro si colloca da sempre nel fertile spazio interstiziale compreso tra arte, architettura e design.

Francese di nascita e portoghese di adozione, Faustino è architetto, ma pratica fin dagli esordi la contaminazione tra campi disciplinari limitrofi, promuovendo ed elaborando progressivamente l’idea di uno spazio ibrido, concepito come installazione incompiuta che attende di essere animata, e completata, dall’uomo. Le sue opere, che spaziano dall’immaterialità delle arti visive alla materialità delle architetture costruite e degli oggetti di design, sono profondamente “significate” da riflessioni critiche e filosofiche sul tema dello spazio e delle sue relazioni con il corpo, che nel terzo millennio appare di potente attualità. Da qui Faustino, ispirato dal pensiero di Claude Parent (che nel 1963 fonda con Paul Virilio il gruppo Architecture Principe e che nel 1970 teorizza il Vivre à l’oblique in risposta all’angle droit lecorbusieriano), concepisce uno spazio adattivo, plasmabile e modificabile da parte dei corpi dei suoi utilizzatori.

Ospitata nel 2107 alla prima Biennale di Architettura di Orléans, Tomorrow’s shelter si declina in una matrice di configurazioni diverse e analoghe allo stesso tempo, ciascuna composta da percorsi inclinati e snodi incurvati combinati a comporre architetture flessuose e avvolgenti, ma anche labirintiche e ossessive. Di fronte all’incertezza sul futuro causata dai comportamenti distorti che contraddistinguono la nostra società e alla condizione di emergenza culturale oltre che ambientale e relazionale, l’opera è ideata come “una struttura abitabile ed estendibile, una concatenazione di spazi che potranno essere utilizzati come rifugio, all’indomani di una possibile catastrofe generata dal riscaldamento globale”.

Dopo la fine del mondo (non a caso l’opera è stata allestita anche nel contesto dell’omonima mostra organizzata dal Centro per l’Arte Contemporanea “Luigi Pecci” di Prato tra ottobre 2016 e marzo 2017 e più recentemente, a marzo 2018, presso la Galleria Filomena Soares di Lisbona nell’ambito dell’iniziativa Unbuilt Memories), quando l’unica certezza residua sarà probabilmente soltanto il suo corpo, l’uomo potrà trovare riparo occupando le architetture nomadi predisposte da Faustino e trasformandole in architetture rinnovate, animate da una nuova coscienza dello spazio e del tempo. L’incompiutezza delle strutture abitabili ideate dal progettista è emblematicamente suggerita persino dal nome del suo atelier (che ha sede sia a Parigi che a Lisbona): il Bureau de Mésarchitectures produce edifici imperfetti (la cui condizione minore è tradita in lingua francese dal prefisso privativo més-) affermando al contempo una forte e personale autonomia critica del loro autore (che ne suggella la paternità definendoli mes architectures). Una riflessione volutamente incompleta e interrogativa sul futuro che sembra alludere alla disperata ricerca di protezione e rassicurazione in una società fluida che cambia e che lotta per costruire un nuovo avvenire per l’umanità.

Non è dato sapere se dopo la catastrofe globale abiteremo città e territori. La dimensione insieme utopica e distopica degli organismi adattivi progettati da Faustino potrebbe offrire ai nostri corpi un’occasione per ricominciare.

Simone Bori

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