La grande caccia inizia dopo la pioggia, insieme ai segugi del diamante nero. Il cane ha un senso dell’olfatto molto sviluppato, oltre cento milioni di volte superiore al nostro. E la parte terminale del suo naso si chiama rinario, ma anche tartufo, forse per la forma e il colore. La golosa ricerca di questo pregiato fungo ipogeo è affidata al binomio inscindibile tra l’esperienza dell’uomo nell’individuare le piante con cui vive in simbiosi - roverella, nocciolo, leccio, faggio, quercia- e l’infallibile fiuto del suo cane che, trovato il punto esatto, scava freneticamente per portarlo alla luce. La razza migliore secondo gli esperti è il “lagotto romagnolo”, proprio per il suo notevole olfatto. Al nord, in Piemonte, lo chiamano “tabui”, il mitico cane del “trifolao”, il cercatore di tartufi. Da noi sono detti “tratufanari” i cercatori e “tratufani” i tartufi, voci dialettali in uso già nel 1400 negli statuti spoletini. I paesaggi boscosi dove perdersi camminando, i profumi, la cantilena del cercatore, i musi concentrati e la danza di code quando il tubero è finalmente trovato sono un bell’esempio di antico rituale e di collaborazione fra l’uomo e il cane, un “asso della cerca” addestrato al riporto. Una attività vietata oggi in Italia senza i quattro zampe, perché solo loro sanno fiutare i tartufi maturi, senza danneggiare le tartufaie cavando quelli acerbi. Dagli “statarecci”, come si chiamano qui in Umbria gli estivi – i tuber aestivum Vittadini – che si raccolgono da giugno a settembre, detti anche scorzoni per via di quella scorza ruvida, a quelli autunnali, gli uncinati profumati, ma sempre meno pregiati di quello invernale che portiamo sulla tavola festosa del Natale, il pregiatissimo melanosporum, nero fin dentro l’anima. Scontenti i cercatori quando raccolgono le “caciole”, quei piccoli tartufi color nocciola, dal sapore agliaceo e non commerciabili: "Ho giratu tantu e c’ho la catana vòta, lu cane m'ha 'rportato giustu du' caciole! Ho camminato tanto e ho il tascapane vuoto, il cane mi ha riportato solo due caciole”. Si chiamava infatti “catana” la bisaccia del cercatore di tartufi. Lì i tartufi stavano al riparo dal caldo e dal freddo. Era rigorosamente di cuoio, mai di stoffa, chè non avrebbe conservato al meglio i preziosi tuberi raccolti. Il mondo del tartufo, bianco e nero, è un mix di tecnica e legame con la natura e golosa tradizione culinaria. Una realtà in cui c’è un continuo lavoro di tutela del territorio e del consumatore, che affonda le sue radici nella tradizione e nel piacere immediato racchiuso nel pregiato tubero, tanto che il modo migliore per preservarne le caratteristiche è mangiarlo subito in ricette semplici e conservare poi in memoria la sua fragranza. Tesserino, borsa, zappette, bastone, certificazioni e università. Sì perché esiste persino l’Università dei cani da tartufo. La razza qui non è così importante, conta l’addestramento del cane che viene condotto nei boschi a fare esperienza e restituito poi al proprietario pronto per la cerca. Fondata nel 1880 a Roddi d’Alba, in Piemonte, da Antonio Monchiero e ufficializzata nel 1935 durante la V Fiera del Tartufo bianco d’Alba. Per andare insomma alla cerca con un alleato prezioso: un cane “laureato in tartufologia”.