16.11.18 , Design , Collaboratore Riflesso
L’8 di marzo del 2008 si inaugurò a Torino la Mostra “DcomeDesign” dedicata alle donne impegnate nel design.
Non era la mostra del design “al femminile” ma piuttosto una ricerca dedicata alla valorizzazione delle donne operanti nel settore.
La data di inaugurazione coincideva con la data internazionale della Festa della donna ma nel titolo la parola donna era sottintesa per dare spazio al design e il logo, ironicamente, si rifaceva al ricamo; ad un punto croce rivisto in versione digitale.
L’esposizione inaugurava gli eventi dell’anno di World Design Capital a Torino, prima città insignita di questo incarico che tanto rappresentò per ICSID, l’organizzazione internazionale del design, che ora presiedo, e che, anche in virtù del successo dell’iniziativa sviluppatasi per la prima volta a Torino nel 2008, ha ora cambiato il proprio nome in World Design Organization.
Sono passati dunque dieci anni e molte cose sono cambiate, vale la pena di fare il punto della situazione su questo aspetto: le donne e il design.
La Mostra non nasceva con intenti femministi o di rivendicazione, ma dalla volontà di valorizzare il lavoro di tante donne, designer, imprenditrici, giornaliste, che hanno contribuito allo sviluppo di questa disciplina in Italia. Per me, personalmente, nasceva dal desiderio di dare maggiore visibilità alla figura di Anna Castelli Ferrieri, architetto, designer, prima Presidente donna dell’ADI (1969), personaggio chiave dello sviluppo di Kartell, progettista a tutto tondo che, a mio modo di vedere, non aveva goduto di quella popolarità riconosciuta dalla stampa ai suoi colleghi del periodo.
Così con Anty Pansera, storica del design, che aveva qualche anno prima (2002) raccolto tante testimonianze femminili per la rassegna a titolo “Dal merletto alla motocicletta”, decidemmo di intraprendere quest’avventura; senza soldi, senza sponsor e nella più totale assenza di garanzie. Fino all’ultimo credetti di dovermi indebitare per gli anni a venire per fare fronte all’impegno che ci aveva coinvolte ma poi, grazie ad un peregrinare ininterrotto, gli appoggi arrivarono dalla Regione e da sponsor privati.
Ero Presidente dell’ADI per la Delegazione territoriale e una grande soddisfazione per me fu rappresentata dal fatto che quando uscì il catalogo della Mostra, in cui un capitolo era stato da me dedicato alle donne dell’ADI, ero da poco stata eletta alla carica di presidente nazionale; seconda donna dunque dopo Anna Castelli.
Lo interpretai come un ringraziamento per gli sforzi fatti e un passaggio simbolico di testimone alle nuove generazioni.
Ma cosa ci insegnò quel lavoro e cosa è cambiato oggi?
Nell’indagare alle radici di quel design che si sviluppo in Italia negli anni Cinquanta, dopo la guerra, nella trasformazione dell’Italia da paese agricolo a nazionale industriale, andammo alla ricerca di quei personaggi femminili che a inizio del secolo si distinguevano per intraprendenza e creatività. Sviluppammo la ricerca storica a livello regionale, per rispondere a precise attese. Scoprimmo così che vi erano stato casi isolati, ma significativi, di donne attive nel mondo imprenditoriale; una per tutte Elena Scavini Koenig al cui soprannome “Lenci” si deve la diffusione di un materiale di produzione da tutti conosciuto: il panno Lenci. Le sue molteplici attività la videro coinvolta nella direzione di un’impresa con centinaia di addetti prima della grande crisi del ‘29 e produrre poi collezioni di ceramiche, di impronta attualissima per i tempi, ora ricercate dal mercato antiquario degli appassionati. Si trattava però di esempi isolati, di eccezioni.
Negli anni Cinquanta poi due figure centrali come quelle di Anna Castelli e di Franca Helg aprono il panorama della presenza femminile nel campo del design industriale. Sono ancora professionalità che restano legate per molto tempo nella storiografia a quelle dei rispettivi mariti o colleghi di lavoro.
Solo in tempi successivi e, come per altro é accaduto all’estero per figure come quelle di Charlotte Perriand (collaboratrice dello studio Jeanneret - Le Corbusier) o di Eileen Gray (per i suoi contatti con i più famosi Gropius, Le Corbusier, Mallet Stevens) queste figure di donne progettiste hanno assunto una propria indipendenza e statura culturale autonoma.
In questo credo che la nostra mostra, in ambito italiano, abbia contribuito in qualche modo.
A partire da quegli anni e venendo verso la fine del secolo scorso abbiamo potuto vedere come il ventaglio si sia aperto e come la presenza operativa femminile sia aumentata.
Le università oggi vedono la maggioranza di figure femminili anche in questo settore e finalmente molte di esse non abbandonano la professione dopo gli studi, come avveniva un tempo per i condizionamenti sociali e famigliari.
Le personalità femminili importanti sono state molte, non solo in qualità di progettiste ma anche di imprenditrici e di promotrici della diffusione della cultura in ambito editoriale. Trecento furono le identità italiane di rilievo che dieci anni fa schedammo con una nota biografica, oggi sarebbero molte di più! Ciò che è cambiato è che non è più necessario parlare di design al femminile come se si trattasse di una curiosità: è assodato che si parli di design.
Infatti alla fine dei quella ricerca, che era stata per noi così coinvolgente, la domanda che ci eravamo poste in partenza e cioè se esistesse un design al femminile o meno, ottenne una risposta chiara: non esiste un design “di genere” esiste solo una differenza tra produzione corrente e buon design. É la qualità che ci interessa!
Oggi non ci si chiede più se un prodotto sua stato realizzato da una designer o meno, da un imprenditore o un’imprenditrice; ci interessa la personalità di quel prodotto, il suo valore.
Molto dunque e cambiato in poco tempo. Ciò che ancora condiziona una differenza della professione al femminile sono le interferenze sociali: la carenza di servizi pubblici adeguati che permettano più agevoli condizioni di lavoro e la mentalità generale ancora legata agli schemi tradizionali, più in Italia che negli altri paesi europei. Per una donna è sicuramente ancora più difficile pensare serenamente ad una affermazione professionale e contemporaneamente occuparsi della famiglia.
Si tratta di un problema “tecnico” di risorse personali e collettive non certo del fatto, come ebbe a dire un famoso critico con cui discussi animatamente, che le donne non siano portate per la matematica e l’arte e quindi, analogamente, anche per il design.
Luisa Bocchietto
RIFLESSO
Registrazione Tribunale di Perugia n.35 del 09/12/2011
ISSN 2611-044X