Fate presto!

Emergenza, memoria e ricostruzione nell’arte contemporanea

10.08.19 , Arte , Collaboratore Riflesso

 

Fate presto!

Nella contemporaneità non è raro il caso di artisti che dedicano la loro attenzione all’evento sismico spesso, diversamente dal passato, mettendo in relazione la loro energia creativa con quella della natura o reagendo al trauma con ricca potenza intellettiva. Nel passato l'arte dava forma, nell’icona apotropaica, alla narrazione dei miti primigeni dello sciamano evocando le forze ctonie antropomorfe o zoomorfe: i Giganti, il pesce gatto giapponese, l'elefante o le tartarughe indiane o i dispettosi serpenti amerindi.

In occidente il terremoto segna la fine del tempo, dopo la rottura del sesto sigillo nel Libro dell’Apocalisse, e spesso la sua evocazione assume la valenza simbolica di volontà esterne all'uomo che ne decretano la punizione o la salvezza oppure diviene rappresentazione della memoria collettiva o cronaca della catastrofe. Tanti terremoti compaiono nella pittura in tele d'altare e semplici ex-voto. Singolari i casi della Sala dei Giganti, di Giulio Romano del 1533 a Palazzo Té a Mantova, in cui la collera divina colpisce i mostri antropomorfi con un sisma cosmico e quello di Monsù Desiderio, pittore dell'inizio del XVII secolo: le sue allucinatorie e apocalittiche visioni notturne in molti casi hanno come soggetto proprio l'evento sismico, quasi preconizzando illustrazioni per la moderna thomiana teoria delle catastrofi o le virtuali narrazioni di cui la letteratura e il cinema odierno sono prolifici.

L’arte contemporanea si fonda su presupposti in parte diversi da quelli del passato; l'icona nasce dalla coscienza di essere nello spaziotempo tra passato, presente e futuro e dalla sua necessità di un continuativo e specifico approccio con il reale del mondo e le sue problematiche. Ne sono un esempio la risposta picassiana al trauma di Guernica e il complesso carattere della nuova estetica relazionale presente in tanta arte contemporanea. L'opera quindi si relaziona con il mondo e si contamina con l’evento oltre l'evocazione simbolica, la narrazione o la collocazione metafisica della catastrofe. L'artista si fa carico di soluzioni nelle quali l’emergenza possa sollecitare nuovi metodi di intervento nel mondo e pratiche atte a consolidare la coscienza di una memoria, singola e collettiva, e anche per ricostruire, elaborando il vuoto dell'assenza, non solo il distrutto ma la nuova identità della collettività sopravvissuta.

All'indomani del terremoto della Valle del Belice del 1968, l'amministrazione locale decide di ricostruire il paese di Gibellina a venti chilometri dal paese distrutto. Architetti ed artisti sono chiamati dal sindaco Ludovico Corrao a fornire progetti e opere per la rinascita della nuova città. Anche Alberto Burri fu invitato e, unico a fare questo, volle intervenire sulle rovine abbandonate del paese creando un’immensa opera praticabile, il Grande Cretto Gibellina, iniziata nel 1985 e interrotto nel 1989 e finalmente concluso per il centenario burriano del 2015. Inizialmente visto con sospetto e come intrusione non richiesta dell'arte nella propria memoria, oggi i superstiti accettano l'opera che diviene nuovo luogo per la memoria: sanno che le loro cose sono per sempre custodite dall’arte che ha dato forma alla loro cicatrice lasciata dal terribile trauma.

Nel luglio del 1984 si inaugura a Villa Campolieto, a Ercolano, la mostra Terrae Motus che riunisce le opere di artisti che avevano risposto nel 1981 all’invito del gallerista napoletano Lucio Amelio di reagire con un'opera al sisma che aveva scosso Napoli e l’Irpinia. Le opere dei 25 artisti rispondono al tragico con altrettanta energia supportata dal proprio linguaggio in specifiche intense e magnifiche soluzioni formali. Tra essi Alfano, Beuys, Cragg, Hearing, Kiefer, Long, Mapplethorpe, Merz, Paladino, Pistoletto, Richter, Twombly e Warhol; quest’ultimo realizza tre grandi tele che riproducono, in positivo, in negativo e in oro, la prima pagina del giornale napoletano “Il Mattino” del 26 novembre 1980 che titolava Fate presto!

Nel 2009 il territorio abruzzese è scosso da un violento terremoto che miete vittime e ferisce profondamente il patrimonio aquilano. L'artista Giuseppe Stampone decide di reagire all’evento realizzando opere che intervengono criticamente sulla comune accettazione della disgrazia altrui. Particolare eco ha la produzione e la diffusione, dal 2010, di cartoline della città terremotata con la scritta Saluti da L’Aquila: un invito a venire nella città per capire l'accaduto oltre la comunicazione ufficiale, ascoltare il silenzio delle rovine e verificare la possibilità della comunità di scegliere quello in cui credere per il proprio futuro.

Tre episodi italiani esemplari, nel panorama internazionale, del porsi nei confronti della catastrofe tellurica che si fondano sul voler mantenere la memoria e rielaborare il trauma nella consapevolezza dell’evento. La reazione all’irrazionale, caotico e imponderabile, trova forma in un nuovo equilibrio tra apollineo e dionisiaco in una rinnovata condizione della bellezza che lenisce.

Aldo Iori

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