Una monumentalità prodigiosamente rinnovata nel più ardito dei linguaggi contemporanei
Alberto Burri rappresenta incontestabilmente una delle voci più interessanti, in campo internazionale, degli sviluppi materici dell' "Informale". Nativo di Città di Castello, si laurea in medicina nel 1940. Inizia a dipingere a Hereford in Texas, prigioniero durante la Seconda Guerra Mondiale. Sin dall'inizio la sua ricerca si svolge nell'ambito del linguaggio astratto con opere che non concedono assolutamente nulla al figurativo in senso tradizionale. Le prime opere appartengono alla serie delle «muffe», dei «catrami» e dei «gobbi» e conservano un carattere essenzialmente pittorico, in quanto sono ancora costruite secondo la logica del quadro. Nei "gobbi", Burri modella la superficie di supporto con una struttura di legno, manifestando a poco a poco il desiderio di uscire dal quadro. La stagione dei "sacchi" inizia nel 1952; non è più la pittura a fingere la realtà ma la realtà che finge la pittura. Sulla tela uniformemente tinta di rosso o di nero Burri incolla dei sacchi di iuta, logori e pieni di rammenti e cuciture. Di "carne e sangue" ha parlato il critico americano Sweeney, riferendosi al passato di medico di Burri per spiegare le suture, i tagli, gli interventi con bende e garze. Il rosso colante e i tagli alludono alla ferita, non tanto del singolo individuo ma a quella immensa del mondo, dopo la guerra. Dal 1957 in poi, con la serie delle «combustioni», compie una svolta rilevante nella sua arte, introducendo il «fuoco» tra i suoi strumenti artistici con cui accelera la corrosione della materia. Nella sua poetica è sempre presente il concetto di «consunzione» che raggiunge il suo maggior afflato cosmico con la serie iniziata negli anni Settanta dei «cretti», realizzati con una mistura di caolino, vinavil e pigmento fissata su cellotex, aventi l'aspetto della terra essiccata. I titoli che Burri ha scelto per le sue opere non hanno nulla di evocativo o di lirico, potrebbero accompagnare benissimo esperimenti scientifici (Sacco 5P, Combustione Legno SP) ma testimoniano la sua volontà di proteggere la pittura da significati "altri", da qualsiasi elemento letterario che ne mini la silenziosa imponenza. Le collezioni di Palazzo Albizzini e degli Ex Seccatoi del Tabacco a Città di Castello non costituiscono soltanto le maggiori raccolte di opere di Burri ma sono la prova di una delle principali convinzioni dell'artista: la necessità di un rapporto tra l'opera e lo spazio particolare, irripetibile, che la contiene. Palazzo Albizzini, nel cuore della città , fu scelto da Burri per la sobrietà degli elementi decorativi che creano una perfetta armonia con la geometria delle sue opere; mentre il grande complesso industriale degli Ex Seccatoi del Tabacco, appena fuori le mura della città , fu scelto dall'artista negli anni Settanta come studio per lavorare, visto l'aumento consistente delle dimensioni delle opere cui si dedicava in quegli anni, poi mano a mano iniziò a vederlo come l'unico contenitore possibile per esaltare la monumentalità dei "Cicli" progettati proprio in quell' ambiente: Il viaggio (1979), Sestante (1982), Rosso e Nero (1984), Cellotex X (1975-84), Annottarsi (1985-87), Non ama il nero (1988), Neri (1988-90), Metamorfotex (1991) e Il Nero e l'Oro (1992-93). Quando Burri decide di lavorare soltanto per "Cicli", non fa altro che radicalizzare un'idea che aveva sempre sostenuto: ogni opera è collegata a quella che la precede, a quella immediatamente successiva o magari a quella dipinta vent'anni dopo.