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Quando il presepe diventa un’opera d’arte: Calvi

Martedì, 29 Novembre 2016,
Arte,
Il presepe in Italia è sempre stato un simbolo del Natale prima di venir affiancato e sopraffatto dall’albero: non vi era casa dove, l’otto dicembre, non venisse preparato a più mani familiari, in un rituale affettuosamente evocativo di ricordi. Statuine sbeccate che si tramandavano di generazioni, specchietti come laghi, stagnola per i ruscelli, muschi per i prati e falde d’ovatta per la neve, ma per molti secoli anche Papi, ordini religiosi, nobili e ricchi borghesi, commissionarono preziosi presepi a grandi scultori, vere e proprie “sacre rappresentazioni” con decine di statue spesso a grandezza naturale, che purtroppo col tempo sono andate perdute. Intonso è rimasto quello di Calvi in Umbria, nell’Oratorio della Confraternita di S. Antonio: un imponente presepe monumentale del Cinquecento, realizzato dai fratelli abruzzesi Giacomo e Raffaele da Montereale tra il 1541 e il 1546, con più di 30 grandi statue che ne fanno una sorta di teatro perenne. È assai comprensibile la genesi di quest’opera mirabile se si pensa che Calvi si trova a circa 30 chilometri da Greccio, dove San Francesco nella notte di Natale del 1223 fu l’ideatore del primo presepe vivente. Il presepe monumentale in terracotta policroma è collocato all’interno di una nicchia che si sviluppa verticalmente per un’altezza di circa otto metri e in larghezza per circa quattro, con all’esterno un fascione continuo decorato a girali d’acanto. Ai lati del catino absidale in due nicchie sono collocate le statue di S. Antonio Abate e di S. Rocco, patroni della confraternita stessa ed invocati contro la peste. L’attuale collocazione del presepe non è quella originale: infatti per consentire la realizzazione del retrostante coro del monastero, negli anni quaranta del Settecento fu necessario accorciare questa chiesa ed il presepe venne smontato e poi ricollocato nella nuova abside su due livelli, in maniera analoga a come si trovava originariamente. L’opera si sviluppa su due livelli: nel registro inferiore troviamo rappresentata l’Adorazione dei pastori mentre in quello superiore Il corteo dei Magi in viaggio verso Betlemme. Al centro della scena principale, la Vergine e San Giuseppe sono inginocchiati in adorazione del Bambino, secondo un’iconografia diffusasi a partire dal XV secolo. A sinistra c’è un suonatore di cornamusa e sulla destra due contadine. Dietro la Sacra Famiglia, sul fondo della nicchia, compaiono il bue, l’asino e cinque angeli, dei quali quattro in piedi e uno in ginocchio.È evidente la disparità qualitativa tra le figure della Madonna, di S. Giuseppe e della giovane contadina, riferibili ai maestri, rispetto alle altre, opera invece degli allievi. Il secondo registro è diviso in due gradoni: su quello inferiore ci sono i tre Re Magi a cavallo recanti i doni, su quello superiore è invece collocato un corteo di sei figure, in parte a piedi e in parte a cavallo, una delle quali addirittura rivolta verso l’interno della rappresentazione. Quattro angeli musicanti sono sospesi nella volta celeste. Particolare è la presenza di una figura maschile seduta sul bordo del catino absidale superiore, con le gambe penzolanti nel vuoto: questa è stata interpretata sia come un giovane intento a togliersi una spina dal piede, tema ellenistico e classico, sia come il diavolo nell’atto rabbioso di strapparsi un piede per la nascita del Salvatore. Gli sguardi sembrano vivi, impressionante il realismo di certe figure come lo zampognaro che gonfia le gote suonando o il viso scavato e teso di Giuseppe. La tecnica della terracotta invetriata venne messa a punto verso il 1440 da Luca della Robbia anche se in realtà si trattò della “rinascita” di un’arte che era già molto cara agli antichi. A Luca della Robbia rimane il merito di aver abilmente riscoperto la tecnica portandola a livelli di esecuzione eccelsi e rendendola uno dei metodi più duraturi per dare policromia alla scultura. La tecnica consisteva nel creare un rilievo di terracotta che veniva poi dotato di un rivestimento ceramico policromo e lucente. Si usava uno smalto "stannifero", cioè a base di ossido di stagno, o ossido di piombo e sabbie silicee (responsabili dell'effetto vitreo), con un elemento alcalino e vari ossidi metallici per ottenere i diversi colori.

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