sezione arte riflesso magazine

Mantova tra nani, ramarri e labirinti d’amore

Venerdì, 05 Febbraio 2016,
Arte,
“Forse che sì forse che no”: un enigma in un labirinto. Se si vuole provare a capire Mantova, bisogna partire proprio da ciò che sembra impossibile capire: l’amore. E per farlo, basta incominciare alzando la testa verso il soffitto dell’appartamento del duca Vincenzo I Gonzaga nel Palazzo Ducale della città. Il cosiddetto “soffitto del Labirinto” si trovava in origine nel Palazzo di San Sebastiano e fu realizzato ai tempi di Isabella d'Este e Francesco II Gonzaga, i bisnonni di Vincenzo. Isabella era un’anima in pena alla ricerca di un amore che rischiava di condurla alla perdizione e nulla poteva rappresentare il suo groviglio interiore meglio di un labirinto. Il motto "Forse che sì forse che no" avvolto tra le sue spire è tratto da una "frottola amorosa", una canzone d'amore di Marchetto Cara, compositore veronese alla corte dei Gonzaga, dove il “forse” racchiude la logorante indeterminatezza che lascia l'amante pendere eternamente dalle labbra dell'amata. Nella Mantova dei Gonzaga l’amore non viene mai nominato, eppure permea di sé ogni luogo sotto mentite spoglie. Come quelle del ramarro, che “si arrampica” dappertutto sulle pareti delle stanze di Palazzo Te – costruito nella prima metà del Cinquecento da Federico II Gonzaga, figlio di Isabella e come lei tormentato da pene amorose – affinché servisse al duca da esempio: l’animale si credeva fosse immune al fuoco e ad esso Federico, che invece ardeva d’un fuoco d’amore, fece affiancare il motto quod huic deest me torquet, “ciò che manca a costui mi tormenta”. Mantova non è però solo il luogo del calvario amoroso dei Gonzaga. Qui, nella Basilica di Sant’Andrea in Piazza Mantegna, ritroviamo uno dei tanti Graal sparsi sul territorio italiano. Si tratta del presunto sangue di Cristo, che secondo la leggenda fu raccolto da San Longino (il centurione che trafisse il costato del figlio di Dio sulla Croce) e conservato in due vasi d’oro nella cripta della chiesa realizzata da Leon Battista Alberti a partire dal 1472, la quale sorge sul luogo esatto in cui il santo (le cui presunte ossa sono oggi conservate in una cappella dello stesso luogo sacro) seppellì la reliquia nel 36 d.C. Non doveva tanto trattarsi di un mistero, però, se nell’804 d.C. fu Carlo Magno in persona a scomodarsi per scendere a Mantova, convocare Papa Leone III, fargli “autenticare” la reliquia ed elevare la città a sede vescovile. Il Venerdì Santo di ogni anno il reliquiario viene aperto con un meccanismo che prevede l'impiego contemporaneo di dodici chiavi, detenute da dodici diversi rappresentanti della società civile e religiosa della città. Per cui, se manca anche uno solo dei dodici, la serratura non si apre. Ma a Mantova, quando si pensa che tutti i misteri siano stati risolti, ce n’è sempre un altro in agguato dietro l’angolo, come i frammenti di affreschi e le sinopie del Pisanello nel Palazzo Ducale che raffigurano scene cavalleresche ispirate ad Artù e alla Tavola Rotonda o l’“Appartamento dei Nani di Corte”, sempre nello stesso edificio, dove ogni particolare è stato studiato in scala ridotta in base a una ricostruzione simbolica e iniziatica. E per finire, la quattrocentesca Torre dell’Orologio, che insieme all’orario indica le fasi lunari e la posizione del sole nel segno zodiacale del mese corrente.  Francesco Colamartino

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