THE BIG U - Emergenza chiama Progetto

10.08.19 , Architettura , Collaboratore Riflesso

 

THE BIG U - Emergenza chiama Progetto

Il 29 ottobre 2012 l’uragano Sandy colpisce la costa nord-est degli Stati Uniti d’America. Gli effetti della tempesta sono devastanti: 186 persone rimangono uccise, 65000 abitazioni vengono distrutte e 65 miliardi di dollari quantificano i danni inferti a un’area che comprende la città di New York. Parallelamente alla gestione della fase emergenziale, a tutti i livelli si palesa la percezione che la vulnerabilità di fronte a un evento naturale, seppur di portata epocale, è data da un deficit di consapevolezza sulla prevenzione. E in questo senso si muovono la Hurricane Sandy Rebuilding Task Force, fortemente voluta dal presidente Barack Obama, insieme all’U.S. Department of Housing and Urban Development. Perché la questione “non è fare un piano, ma cambiare una cultura”.

Queste poche righe testimoniano una riflessione che accomuna in maniera quasi rituale ogni cataclisma naturale. Ma senza voler sottovalutare le differenze dovute alla diversità dei contesti e delle risorse, colpisce come nell’occasione venga valorizzata una metodologia operativa propria di una campagna di ricerca. In particolare nel giugno del 2013 viene bandito il concorso internazionale Rebuild by Design, dotato di un budget iniziale di circa 1 miliardo di dollari, con l’intenzione d’ideare una visione condivisa sulla ricostruzione (rebuildbydesign.org). Allo stesso tempo viene data molta enfasi alla replicabilità in altri contesti del percorso adottato, imperniato su multidisciplinarietà, collaborazione e partecipazione. Infatti i gruppi coinvolti sono team internazionali di progettisti, designers, sociologi, climatologi… chiamati nell’arco di un anno a visitare le zone di intervento, organizzare incontri con le vittime e coinvolgere i soggetti pubblici e privati interessati, al fine di redigere masterplan complessi da attuare negli anni successivi in diverse aree colpite dall’uragano. La qualità degli attori appare evidente se si pensa che partecipano all’iniziativa concorsuale i più noti studi internazionali sulle tematiche dell’architettura e del paesaggio, da OMA a West 8. E infine nel giugno del 2014 vengono resi pubblici gli esiti dei gruppi di lavoro e viene assegnata la vittoria alla proposta The BIG U ideata dall’équipe coordinata dall’olandese Bjarke Ingels Group (BIG), che indaga l’area incentrata sulla downtown di Manhattan (big.dk/#projects-hud). Il progetto è un vero e proprio database di interventi a zero cubatura, di landform-architecture e di microarchitetture dislocati sulla costa urbana, in forma appunto di “grande U”, e comunicati nello stile fatto di icone accattivanti, schemi smart, render iconici ed elaborati progettuali ammiccanti che sono il tratto caratterizzante di uno dei collettivi più rappresentativi della scena contemporanea. Infatti una serie sinergica di interventi occasionali di diversa intensità, funzioni e opportunità vengono misurati sul contesto, in modo tale che nel loro complesso rappresentino un apporto di resilienza necessario ad affrontare le insidie climatiche nel lungo periodo. In particolare terrapieni stradali, barriere mobili e dune artificiali proteggono dalla forza distruttrice degli eventi climatici ma non ostacolano l’accessibilità. Laddove appaiono come panchine, negozi, bike-point, osservatori, giardini, sedute, meeting-point, punti informativi, scivoli, skate-park, spazi espositivi... Suggellati da un edificio-simbolo fatto di lingue di terreno stereometriche affacciate sull’acqua nell’area di Battery Park, che ospitano un museo del mare con un “acquario inverso” che si affaccia sullo Hudson e permette di traguardare le profondità marine e la statua della Libertà.

Gli esiti coniugano mirabilmente due anime della Grande Mela, quella delle grandi infrastrutture e quella dell’appartenenza comunitaria, ricalcando il mix che ha reso già celebre il recente parco High Line, non a caso citato nella relazione di progetto. E proprio l’apporto delle comunità cittadine è ritenuto determinante, in quanto sono chiamate a collaborare attivamente alla definizione del progetto stesso. Come è espresso chiaramente dall’animazione commissionata ai maker del team Squint Opera, talmente accattivante che il suo titolo The Dryline è diventato un secondo motto della proposta. E nel video proprio gli abitanti reclamano la necessità dell’intervento che celebra l’anima di New York come un nuovo Central Park, ma non più attraverso la nostalgia di una naturalità perduta sotto i colpi del “delirio” verticale di acciaio e vetro, bensì attraverso la celebrazione del principio del “borough” nel nome della riduzione della vulnerabilità urbana. In modo tale che un progetto contemporaneo sintetizzi in maniera condivisa una forma urbis consolidata: perché l’auspicio “non è fare un piano” ma innescare la cultura del progetto. A ogni latitudine.

Luca Martini

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