Hope and Space

L’emergenza come opportunità per riscoprire i valori fondamentali dell’Architettura

07.08.19 , Architettura , Collaboratore Riflesso

 

Hope and Space

Quando alla fine degli anni novanta qui in Europa si cominciava a ragionare sull’emergenza, mi ricordo, tra gli architetti era ancora considerato un tema pressoché irrilevante.

Non bisogna scordarsi infatti che eravamo in pieno boom neo-liberale e nessuno sembrava essere più minimamente interessato a questioni di tipo sociale.

Eppure quello che trovavo strano è che andando a studiare sui libri di storia scoprivo che i temi dell’emergenza erano sempre stati centrali in Architettura.

Senza andare troppo indietro nel tempo le baraccopoli c’erano già a Berlino, Milano ed in tutte le capitali europee bombardate durante la Seconda Guerra Mondiale e volendo, pensavo, lo stesso movimento moderno di-fatto non fu altro che una risposta concertata a questa immane emergenza.

Per questo non capivo perché venivamo presi in modo così poco serio quando, insieme ad uno stuolo di colleghi un po’ idealisti come me, cominciavamo ad occuparcene, quasi come se si trattasse di architettura di serie B solo perché affrontava realtà di disagio, marginalità o di povertà estrema.

La cosa sembrava ancora più assurda tenendo in conto che nel frattempo la popolazione mondiale stava superando la soglia dei cinque miliardi e sebbene i nostri colleghi fossero perlopiù distratti dalle volumetrie vorticose di Frank Ghery, la questione dell’habitat – il diritto alla casa per i milioni di disperati che affollano le baraccopoli del mondo – stava cominciando ad acquisire un ruolo centrale nel dibattito internazionale (il Summit dell’Onu di Istanbul del 1996 lo sanciva chiaramente).

In quel clima di generale disinteresse, la vista delle Torri Gemelle accasciarsi come castelli di sabbia fu per me un segnale molto chiaro che non si poteva più restare lì a guardare. Mi licenziai dallo studio in cui lavoravo e armato di bindella, i libri di Terzani ed una buona dose di coraggio, mi imbarcai su un volo di sola andata diretto in Birmania. Il mio percorso di architetto umanitario cominciava così.

Negli anni a seguire ho avuto l’opportunità di collaborare in giro per il mondo con svariate organizzazioni in progetti di scale e tipologie differenti: alloggi per sfollati, centri di accoglienza per profughi, cliniche, piani nazionali di ricostruzione e tante, tantissime scuole.

Mi sentivo pienamente realizzato. Ma col passare del tempo cominciai ad accorgermi che attorno a me tutto stava rapidamente cambiando.

Si stava perdendo quell’idealismo originariamente legato al settore umanitario e anche l’aiutare stava diventando un gioco politico spesso fazioso ed interessato. Anche l’Architettura era cambiata.

Finalmente si era resa conto che la marginalità e l’emergenza si potevano trasformare in un meraviglioso laboratorio di ricerca (due premi Pritzker consecutivi furono aggiudicati a professionisti, Shigeru Ban e Alejandro Aravena, impegnati su questi temi). Alleluya, pensai.

Ma questa ritrovata attenzione se da una parte alimentava un dibattito certamente utilissimo, dall’altra mi accorsi che stava anche creando delle dinamiche che trovavo alquanto preoccupanti e perverse.

Come se lavorando nei campi profughi e nelle baraccopoli, queste tragiche realtà le stessimo in qualche modo anche legittimando. Non solo, ma cosa che cominciavo a sentire ancora più fastidiosa, tutta quell’attenzione da parte dei siti di tendenza stava portando con sé quella autocompiacente, frivola ricerca del gesto che ben conoscevo e che ho sempre trovato odiosa, quasi immorale. Figuriamoci in contesto umanitario. E questo, così come successe in quel fatidico undici di settembre di diciassette anni prima, mi rimette in crisi.

Oggi il mondo è a un punto di svolta cruciale, direi apocalittico: sette miliardi di persone che lo affollano, di cui più della metà nelle periferie urbane, un terzo nell’indigenza totale; di questi sette miliardi, l’uno percento controlla il cinquanta percento delle ricchezze mentre il restante novantanove se ne resta a guardare; quei poteri totalitari che meno di un secolo fa distrussero l’Europa si stanno rapidamente ricostituendo generando nuovi conflitti e nuove diaspore.

Come se non bastasse il pianeta ci sta dando segnali chiari ed inconfondibili di essere al limite della sua capacità di sopportazione. Appare quindi ormai chiaro che se non cambiamo rotta velocemente siamo diretti verso un collasso politico, sociale ed ambientale di scala epocale. Per questo credo che oggi siamo tutti chiamati a cercare delle risposte ad una scala diversa rispetto a quella a cui siamo stati abituati fin-ora. Primi tra tutti gli architetti. Non bastano più palliativi, ne soluzioni di compromesso. Dobbiamo trovare il coraggio di reagire ed affrontare temi cruciali quali la gestione delle risorse naturali (terre comprese) e della sostenibilità (quella vera). Ma soprattutto sono convinto che se vogliamo veramente un cambio di rotta dobbiamo trovare il coraggio di trattare una volta per tutte il tema fatidico della distribuzione delle ricchezze. E va fatto in modo urgente, strutturale e netto.

Perché se non lo facciamo, questo è certo, l’emergenza sarà l’unica dimensione che i nostri figli conosceranno e a quel punto, come aveva profeticamente previsto il grande Albert Einstein, ci ritroveremo a vivere di nuovo nelle caverne. E là l’architetto servirà a ben poco.

Luca Bonifacio

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