La “cosa-mazzocchio”

Quando l’arte conferisce alla moda una dignità pari alla scienza

26.11.18 , Moda , Paolo Belardi

 

La “cosa-mazzocchio”

Dallo studiolo del palazzo Ducale di Urbino al chiostro Verde della basilica di Santa Maria Novella a Firenze, dalle mura di porta Frascati a Prato al museo dell’Ara Pacis a Roma, la “cosa-mazzocchio” attraversa tutti i luoghi dell’arte moderna, serrando idealmente l’opera di grandi artisti del Quattro/Cinquecento (Paolo Uccello, Piero della Francesca, Leonardo da Vinci) con quella di grandi artisti del Novecento (Oscar Piattella Mimmo Paladino, Ben Jakober, Yannick Vu).

Ma che cos’è la “cosa-mazzocchio”? e perché il mazzocchio ha sempre sollevato e continua a sollevare tuttora l’interesse degli artisti? L’argomento è talmente intricato da imporre un preambolo etimologico che peraltro, così come è proprio delle questioni più fascinose, lo rende ancor più intrigante. Stando all’Enciclopedia Treccani, infatti, il vocabolo “mazzocchio” deriva dal latino maxuca tramite il suo diminutivo maxuculus: “quantità di cose strette insieme in guisa di mazzo”. Il che, tuttavia, riguarda sia il mondo dell’agricoltura, laddove indica “l’ingrossamento a forma di testa che si forma nei fusti di alberi capitozzati (nocchio)” e “il germoglio giovane di una varietà di cicoria, molto gustoso in insalata (puntarelle)”, sia il mondo del costume, laddove indica “l’acconciatura femminile fatta raccogliendo i capelli in crocchia e legandola con nastri, fiocchi e altri ornamenti”, e soprattutto “il copricapo, composto da un cerchio di borra rivestito di panno, che cingeva il cappuccio medievale”. Copricapo che, nella versione diventata di moda tra la borghesia fiorentina del Quattrocento, era panneggiato su un cerchio imbottito e avvolto con una fascia (foggia) di cui la cima, più larga e corta, si portava a sinistra, mentre la punta finale (becchetto), lunga e stretta, pendeva sulla spalla destra e si girava sulla parte sinistra della schiena.

Tuttavia, a ben guardare, al di là del valore del mazzocchio come accessorio prêt-à-porter, è il solido anulare a sezione poligonale che fungeva da sottostruttura (e che ne incarnava la trasposizione geometrizzata) a serrare in un nodo borromeo la triade arte/moda/scienza, ispirando i virtuosismi disegnativi dei più grandi artisti quattro-cinquecenteschi, che lo hanno citato continuamente (e spesso gratuitamente) nelle proprie opere per consacrare il proprio primato nella pratica della prospettiva scientifica. Basti pensare al caso emblematico delle Storie di Noè affrescate da Paolo Uccello nel chiostro Verde della basilica di Santa Maria Novella a Firenze (1447-1448), dove la “cosa-mazzocchio” svolge con indifferenza la funzione di ciambella-copricapo e di ciambella-salvagente.

Geometria, algebra, intarsio e pittura da un lato; ottica, prospettiva, scultura e disegno dall’altro. Così come notato con acutezza da Roberto Berardi, “è in questo universo di ‘pratiche’ che la figura del mazzocchio (…) viene costruita, disegnata, dipinta e intarsiata come se rappresentasse veramente una cosa, mentre invece costituisce una prova estrema del pensiero algebrico sui ‘limiti’ e di quello geometrico sugli ‘inviluppi’. Gli attributi di questa cosa (…) sono, negli studi grafici, la trasparenza perfetta e l’impossibile perfezione geometrica, il risultato imprevedibile di una sommatoria di eguali, e dunque la scoperta”. D’altronde è innegabile che, malgrado le infinite varianti di acconciature di vimini e/o di stoffa importate dalla Borgogna e acconciate in guisa di ghirlande nel mercato fiorentino della Porta Rossa, la “cosa-mazzocchio” non sarebbe mai esistita di per sé, se non avesse invaso le pagine dei trattati e le tarsie degli studioli del XV secolo. Perché, mediante la rappresentazione del mazzocchio, la realtà del mondo, la realtà dell’universo e la realtà degli artefatti trovano nella matematica un formidabile strumento di comprensione e di condivisone ideologica, peraltro trasmissibile a quanti praticano scienza ed esperienza. Così che l’esperienza non rimane un mero “lavoro meccanico”, ma assurge a “pratica di conoscenza” (tanto che l’artista, da artigiano diviene professore) e la moda, tramite il medium dell’arte, assume una dignità pari alla scienza. Il che, nell’epoca del fashion parametrico e dei gioielli stampati in 3D, non può non sstimolare l’esplorazione di nuovi orizzonti disciplinari.

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