Accumulare, osservare, combinare. La metrica di Antonio Marras

26.11.18 , Moda , Giovanna Ramaccini

 

Accumulare, osservare, combinare. La metrica di Antonio Marras

In riferimento alla natura illusoria delle apparenze espressa dal proverbio “l’abito non fa il monaco”, Antonio Marras afferma: «Nella mia esperienza le apparenze, molto spesso invece rivelano le persone e in particolare, occupandomi di stracci, i vestiti dicono molto di noi, anzi, come scrive Jacques Lacan, “l’Abito ama il monaco, dato che in tal modo essi sono uno”. Il vestito è per me un foglio, un libro, un diario, insomma un testo, un insieme di segni che comunicano, parlano, narrano secondo regole precise, secondo un codice che mi piace trasgredire attraverso l’uso libero dei tessuti, scelti, combinati, accostati in modo inconsueto così da creare giochi analogici e provocare esplosioni di significati». (Antonio Marras, L’abito non fa il monaco, in AA.VV., Il pregiudizio universale. Un catalogo d’autore di pregiudizi e luoghi comuni, Laterza, Bari 2016).

Ed è quello che risulta con grande evidenza a partire dai numerosi bozzetti di studio, espressione diretta del percorso creativo attuato dal poliedrico stilista sardo, in cui la combinazione tra elementi fortemente eterogenei invita a riflettere sulle innumerevoli possibilità di relazione reciproca e sulle inedite interpretazioni che tale rapporto scatena. Che si tratti di opere di piccole dimensioni (come quelle contenute nei vecchi taccuini e agende di una decina di centimetri di lato) o di grandi formati (come nel caso delle tavole che talvolta si sviluppano per oltre cento centimetri) ciò che maggiormente colpisce nel lavoro di Antonio Marras è la profonda capacità di osservazione che, con una straordinaria visione d’insieme, porta all’individuazione di un legame anche tra cose apparentemente lontane. Il particolare viene accolto, recuperato, combinato e assemblato. Si tratta quasi sempre di oggetti non accomunati da alcun parametro, differenti per tecnica, forma, funzione, materiale, colore, per appartenenza storica e culturale. Frammenti accumulati nel tempo, quali mappe geografiche usurate, cartelline di vecchie foto, fogli con vecchi appunti e annotazioni, diventano superfici generatrici di nuove idee. In questo senso, l’azione del comporre regola la relazione tra le parti stabilendo nuove gerarchie all’interno delle quali gli elementi assumono un senso specifico. Le forti linee nere definiscono la figura umana e individuano, con più o meno precisione, il limite all’interno del quale vengono assemblate le singole componenti, a volte segnate da una potenza tale da uscire prepotentemente dai confini. Se in alcuni casi viene costruita una rappresentazione armonica, in cui gli oggetti, per quanto difformi, risultano uniti e ordinati, in altri l’incoerenza viene esaltata, ottenendo immagini aspre, stridenti, ostili ma al contempo straordinariamente evocative, vigorose e vive. Tale aspetto viene accentuato dal contrasto materico comunque orientato da una forte caratterizzazione fisica e sensoriale: materiali liquidi, fluidi, quali i residui di caffè o l’acqua, oppure solidi, compatti, quali la stoffa o i ritagli di giornali. L’incerto, lo scarto, l’errore, diventano fattori inventivi, cui vengono restituiti identità e valori rinnovati. Come trasmesso, a mio avviso, dall’immagine, potentissima, proposta per l’ingresso a Nulla dies sine linea, la mostra ospitata dal Triennale Design Museum nell’ambito della Triennale di Milano del 2016, in cui i tradizionali campanacci da pascolo vengono appesi a mandrie apparentemente indistinte di camicie bianche o giacche nere. Ogni nostro passaggio emette un suono. L’opera di Antonio Marras educa all’ascolto.

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