Editoriale (36)

“Il bello è promessa di felicità” asserisce il filosofo tedesco Theodor Adorno(1903-1969). Promessa non felicità. Di fronte a un quadro di Picasso, a uno scorcio sulle Dolomiti o a un tramonto all’isola di Capri percepiamo una bellezza che si fa sentimento che vorremmo prolungare nel tempo per continuare a essere felici. Il bello è sì presente nell’immediato, ma si consuma come veicolo di felicità nel futuro. E talvolta come tormento se non la si raggiunge. Ce lo ricorda Michelangelo Buonarroti (1476-1564): “Se durante la mia giovinezza mi fossi reso conto che l’immortale splendore della bellezza di cui ero innamorato avrebbe acceso, rifluendo verso il cuore, un fuoco di infinito tormento, come avrei spento volentieri la luce nei miei occhi”. Molto prima di Adorno, quindi, Michelangelo, che tanta bellezza ha creato e diffuso nel mondo, aveva percepito che il canone di bellezza è trasferibile come promessa di felicità e di desiderio di riviverla. Ed anche la bellezza naturale, quella che risplende dai monti o che traspare dalla delicatezza delle farfalle o dall’alternante luccichio delle lucciole o dalla perfezione della fioritura primaverile, crea in noi  piacere che vorremmo rigenerare in futuro come appunto promessa di felicità. Però attenzione. Si dice che la bellezza ci salverà. Da che cosa? Dalla disperazione. In momenti di sconforto, di buia sfiducia, di ombra di avvilimento, fermiamoci un momento per osservare qualcosa di bello o richiamare alla memoria, anche con nostalgia, icone di bellezza, che anche in questo contesto ci salva perché promette felicità. Allora accostiamoci al bello, un valore che è stato dissacrato dalla cultura contemporanea, come a uno dei più profondi lati segreti e nascosti della realtà. Dissacrazione determinata da una non sopita ideologia anti-borghese (tutti i capolavori di scultura, pittura, letteratura e poesia respinti perché borghesi) e nichilista. Il bello ha avuto in sorte il privilegio di rivelarsi nella dimensione del fisico – asseriva Platone – ossia mediante i sensi e segnatamente gli occhi. Ma con la vista non si vede la saggezza, ma si assapora la bellezza nella sua forma più manifesta e amabile. Alla Expo di Milano intesa come  vetrina di cose belle (poiché ogni nazione ha esposto il meglio di sé), chiedete ai visitatori cosa maggiormente li ha impressionati: la vista di tanta bellezza concentrata in una infinità coreografica da godere e da portare a casa, certo per vagliarla con le categorie della saggezza, ma anche per assaporarne i contorni che danno  felicità postuma. Chiedete all’astronauta Samantha Cristoforetti, in questi giorni di ritorno dalla Soyuz, come ha vissuto la bellezza dello spazio e dello stivale italiano illuminato di notte, e come la trasferisce nella sua vita “terrena” per assaporarne o riviverne le componenti emotive in un futuro senza fine perché avvolto dalla bellezza del mondo che pochi occhi hanno avuto la fortuna di sperimentare. Allora la terra non più “atomo opaco del mal” come la definiva il poeta Giovanni Pascoli, ma “atomo sorgente di bellezza” come deve averla vista Astro-Samantha.
Fino a qualche mese fa ci voleva un atto di fede - qualcuno asseriva - nel credere nel successo di  EXPO 2015. Poi è venuto il miracolo. Tranne qualche sbavatura, inevitabile in un’impresa di tale entità, tutto procede meglio di quanto si sperava. Bene il numero iniziale delle prenotazioni dei  visitatori, bene le opere costruite ad hoc, magnifici i padiglioni e  i vari edifici, imponente l’albero della vita, più che positivo il bilancio occupazionale fin dalla fase di cantierizzazione. Un trend che continuerà ovviamente durante il periodo dell’Esposizione, ma anche dopo, con 12.7 miliardi di produzione aggiuntiva sul territorio spalmati fino al 2020 e con la nascita di 11mila nuove imprese di cui la metà in Lombardia. Sono previsti 20 milioni di visitatori, cioè il doppio di quelli ospitati a Milano per la EXPO del 1906. Ma al di là dei numeri e cifre, c’è da chiedersi quale sia il vero significato della EXPO e cosa  rappresenti l’evento per l’Italia. Anche oltre il  ruolo della tecnologia nell’edificazione e gestione dell’EXPO. Polarizzare invece l’attenzione sulla cultura e sui valori  significa ripensare il significato dell’evento nei vari settori espositivi. Certo, l’Esposizione universale dedicata al tema “Nutrire il pianeta, energia per la vita” solleva un’infinità di problemi risolvibili non sempre con l’economia ma sempre con il cuore. Con la cultura e la spiritualità l’EXPO diventa un luogo dell’ascolto, come sottolinea il Cardinale Angelo Scola, un’occasione preziosa per riconoscere la bellezza di appartenere ad un’unica famiglia umana, che per chi crede, è la  famiglia di  Dio, e per rilanciare l’impegno contro la fame del mondo. Scola - a nome di tutti gli uomini di buona volontà - ribadisce che partire dalla fame del mondo è condizione ineludibile “per promuovere l’uomo contro la cultura dello scarto”. L’impegno della EXPO è sì porre l’uomo al centro, ma bisogna farlo oggi in una società caratterizzata da processi difficilmente controllabili dall’uomo stesso. L’esposizione sarà allora il luogo privilegiato per scandagliare le cause della fame, “cercando quali nessi virtuosi instaurare tra l’affronto di questo tema, le sue premesse e le sue implicazioni economiche, politiche e educative, delimitando in tal modo il peso della tecnocrazia”. Anche se l’impronta della tecnologia a Milano Expo la fa da padrona. E non potrebbe essere così considerata la valenza tecnologica in ogni settore espositivo. Dalla connessione costante con i sistemi digitali, alla mobilità sostenibile e alla smart grid, dai satelliti della Eutelsat a copertura dell’evento, alla technogim o alla palestra del futuro lungo le isole interattive del Decumano. Tutto tecnica ma anche molta cultura. Quale? Oltre a quella insita nella tradizione e innovazione  agroalimentare presenti in Italia e nel mondo, la cultura trasuda dal contenuto artistico presente nei vari padiglioni a partire dalle opere di Leonardo Da Vinci, dai dipinti di eminenti pittori e scultori italiani voluti da Vittorio Sgarbi nei vari angoli o “salotti” della EXPO, dai numerosi incontri, tavole rotonde, presentazioni che si inanellano per l’intero periodo espositivo. Il tutto condito da un ricco food nel segno della sostenibilità e della conoscenza dell’eccellenza italiana.
C’è un legame tra scienza e umanesimo? Forse possiamo trarre una risposta anche dal meeting che si svolge a Foligno nel mese di aprile su: Scienza e Filosofia. Quello folignate è un inedito appuntamento annuale che coinvolge scienziati ed umanisti alla ricerca di un quid che potrebbe interessarli nell’attività di studio, di diffusione, di applicazione. Se mai esiste un quid. Scopriamolo mettendo a confronto, seppure a distanza, due  noti personaggi:  uno scienziato, Roberto Cingolani, e l’altro, filosofo, Dario Antiseri. Il primo, milanese di nascita, è il direttore dell’Istituto italiano di Tecnologia (Iit) con sede a Genova, con 1200 ricercatori provenienti da tutto il mondo. In tre anni l’Iit ha sfornato 169 brevetti che vengono venduti ad aziende interessate a tradurli in operatività. Ma brevetti di cosa? Ce lo spiega il recente libro di Cingolani: “Il mondo è piccolo come un’arancia”. Piccolo come la nanotecnologia che sta cambiando la nostra vita con la rivoluzione dell’invisibile. Ed allora robot, nanostrutture, micropresidi medici, advice sportivi, strumenti aerospaziali e nautici. Cingolani sta poi trasferendo la nanotecnologia sui sistemi umani e umanoidi. Sua è la realizzazione del robot iCub che può sostituire l’uomo in molte attività umane fisiche. Insomma Cingolani è un campione dell’innovazione tecnologica italiana. Che non mette però la cultura umanistica all’angolo. Anzi la ravviva quotidianamente convinto come è che la scienza ha bisogno di un continuo supporto intellettuale, anche di ordine filosofico. Ciò  può apparire un lusso che pochi si permettono, ma è un lusso necessario. Anzi è una sfida. Una sfida che l’altro personaggio, il filosofo Dario Antiseri, folignate di nascita, già docente  di epistemologia alla LUISS di Roma, ha raccolto scrivendo (insieme a Giovanni Reale recentemente scomparso) “Cento anni di filosofia. Da Nietzsche ai nostri giorni”. Antiseri, uno dei massimi esponenti della filosofia italiana, non è nuovo a tali imprese. Questa opera è la documentazione dell’immane lavoro che il pensiero umano ha compiuto nel mondo durante il “secolo breve”. É un lavoro sterminato in cui si privilegiano giustamente i grandi filosofi, quali Freud, Husserl, Croce, Heidegger, Wittegenstain, Popper, ma che offre largo spazio anche  alla scienza, al pensiero scientifico e ai temi che l’affiancano: epistemologia, neuroscienza, bioetica,  biopolitica. É affascinante il capitolo sulle scoperte mediche, sulla metodologia del lavoro degli scienziati, sull’interconnessione tra i vari settori del sapere umano. L’opera offre largo spazio alla filosofia italiana, ne mostra il nesso con il resto del mondo, del cui pensiero speculativo l’Italia non è una minuscola propaggine, come qualcuno pensa. Antiseri fa propria l’asserzione per cui la filosofia al giorno d’oggi è quanto mai viva. Tutte le grandi domande sull’uomo, sull’universo  scaturiscono da una prospettiva filosofica. E una volta “visto” cosa è l’uomo, si può studiare come sopravvive nell’ambiente che occupa, gestendo tutti i rischi  che presenta il mondo, sfruttando tutte le opportunità che la scienza offre all’uomo. Come la robotica e la nanotecnologia che Cingolani  inventa per l’uomo, come ponte tra  scienza e umanesimo.
In Umbria da tre anni, su carta. In Lombardia da una anno, sul web. É arrivato il momento di unificare le due realtà in una sola rivista. Così Riflesso dal 2015 diventa cartaceo inglobando le due regioni. A che pro? Ricorda Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda, che “quando un Paese non riesce a occuparsi dei cervelli, del brain, si occupa del cemento che non produce nulla”. Sarà anche vero, ma che dire dei suoi “50 progetti per far volare Milano”, un’iniziativa ambiziosa per far crescere le imprese insieme al territorio che le ospita? Ma soprattutto come non ricordare la definizione di Cattaneo (citata dallo storico Giacomo Bascapè nel suo libro sul Naviglio milanese) della Lombardia, “come di un grande deposito di fatiche, che si tradussero in innovazione e trasformazione di un territorio e di un’economia”. Compreso il costruendo grattacielo più alto d'Italia che svetta su tutta Milano: 202 metri di faccia ricurva dell’architetto Arata Isozaki. E come se non bastasse Expo 2015, già si pensa al dopo, lavorando alla nascita di una Silicon Valley locale utilizzando le eccezionali condizioni infrastrutturali e di digitalizzazione attivate dalla medesima Esposizione. A partire proprio dalla Expo 2015 sono da leggere  le iniziative espansive di Riflesso. L’Umbria vuole partecipare alla kermesse con i propri prodotti che non sono cementificazioni, grattacieli, smart-city, silicon valley tascabili, ma con fattori legati all’arte e alla cultura, alla ricerca e alla scienza della vita, alla storia, al profumo della natura, al gusto delle cose belle, alla scoperta di opere piccole ma leziose, alla valorizzazione di soggetti non in prima fila ma che fanno la storia. L’Umbria si propone con personaggi tipo Brunello Cucinelli imprenditore “filosofo”, attento alle esigenze delle maestranze ma anche della borsa, coniugate ai canoni del moderno mecenatismo. Ci si chiede quali siano le ricadute dell’estensione della rivista sull’Umbria. Conoscenza e diffusione dei valori e dei prodotti della Regione anche a fini turistici. Per i lombardi e per i milioni di visitatori che si recheranno all’Expo. C'è di più. Riflesso ha l’ambizioso disegno di spingere l’Umbria a illustrare ciò che conta e vale in termini di raffinata atmosfera di tradizioni, pressoché incontaminata dalla frenesia delle moderne scelte di vita. A chi? Alla Lombardia ed altre regioni quali Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Puglia e Abruzzo che cominciano ad affacciarsi sul magazine già da questo numero. Per dare, ma anche per ricevere ciò che di meglio offrono questi territori, in un scambio culturale che contagia mente e spirito. Con proiezioni anche verso l’estero. Riflesso si sta consolidando con il Principato di Monaco, e da quest'anno salperà anche sulle onde dell’Atlantico fino a Miami.

Inno all’amicizia

Mercoledì, 26 Novembre 2014,
Se hai occasione di transitare a piedi in Via XX Settembre a Perugia, sosta un momento di fronte alla casa del maestro Franco Venanti, e leggi  su una targa scoperta recentemente un’elegia sull’amicizia. É una poesia scritta dal poeta spagnolo Eduardo Martinez y Hermandez, dedicata al Maestro. In un passo si legge: “Oggi in alto i nostri versi eleviamo/ negli inni sonori che intoniamo/ all’amicizia che insieme invochiamo/ nell’Augusta Perugia che cantiamo”. É un  inno alla duplice amicizia: a Venanti e a Perugia. A Venanti come sentimento nella memoria di un tempo passato che non ha limiti, a Perugia come malinconico ricordo di una città scoperta nella sua bellezza,  mediante, appunto, l’amicizia del Maestro. Amicizia che Venanti pone sempre al prima posti dei valori della vita e di cui io stesso ne ho sperimentato la  consistenza. Dell’amicizia si è detto di tutto e del contrario di tutto. Pensate che il preumanista Boncompagno da Signa nel 1204 compone il libro Amicitia, ove  propone una classifica che comprende ben ventisei  tipi di amico indicati con aggettivi  insoliti e bizzarri. Tra questi mi hanno colpito: Amico fedele; Amico pari; Amico potente; Amico subalterno; Amico reale; Amico girellone; Amico immaginario; Amico sofistico; Amico altezzoso; Amico retrogrado; Amico delle fortuna; Amico truccato; Amico voluttuoso; Amico futile; Amico a causa del nemico; Amico ferreo. L’Autore afferma che il termine amicizia è vago e ambiguo, tanto che quasi sempre lo si unisce ad aggettivi che ne modificano il senso, come egli fa nella sua tassinomia di significati. Ed ognuno  può ritrovare in tale classificazione  qual è per noi e per i nostri amici il significato del sostantivo amicizia. Certo l’Amicitia di Boncompagno è concepita come l’antitesi di una celeberrima opera ciceroniana il Laelisu de Amicitia.  Un’ opera che è diventata nei secoli un cult book, poiché Cicerone innesta l’amicizia personale-filosofica sull’amicizia politico utilitaristica della tradizione romana. Egli scrive: “L’amicizia tiene in sé uniti moltissimi beni, dovunque tu vada la trovi; da nessun luogo è esclusa, non è mai intempestiva; non è mai molesta”. Ma la definizione che meglio si attaglia alla indole dei contemporanei è quella del filosofo epistemologo Massimo Maldini (docente anche all’Università di Perugia): “L’amicizia è un sentimento gratuito, un sentimento che  non si può comprare né vendere. I mercati di amicizia non esistono, né, con buona pace degli uomini di questo secolo, non possono esistere. La ricchezza come già videro nei secoli passati numerosi  filosofi e scrittori, non serve a procurarsi amici, o meglio, a procurarsi ‘veri amici’, ma solo a circondarsi di molti ‘falsi amici’”. E credo che l’inno all’amicizia composto dal. Poeta Martinez y Hermandez per il pittore Franco Venanzi sia espressione di “vera  reciproca amicizia”. Chi può dubitare di tale sentimento legga e rilegga sulle mura della casa dell’Artista le parole eterne del poeta spagnolo.
Erano 22. Sono rimaste sei le città italiane titolate a divenire capitale europea della cultura per il 2019. Tra queste Perugia. Le altre  competitor sono Siena, Ravenna, Lecce, Matera, Cagliari. Qual è il significato dell’assegnazione dell’ambìto titolo? Lo ricorda Androulla Vassiliou, Commissaria per l’istruzione, la cultura e il multiculturalismo del Parlamento Europeo: “Il solo fatto di essere iscritte nell’elenco ristretto per l’attribuzione del titolo può arrecare alle città interessate importanti benefici a livello culturale, economico e sociale, a condizione che la loro offerta sia inserita in una strategia di sviluppo a lungo termine basata sulla cultura. Le capitali sono l’occasione per i cittadini europei per imparare a conoscersi meglio, condividendo patrimoni storici e valori, in altre parole per provare un sentimento di appartenenza ad un’unica comunità di cittadini europei. Incoraggio tutte le città preselezionate a sfruttare al meglio tale opportunità”. E Perugia da tempo sta organizzandosi per sfruttare al meglio la chance di diventare fulcro europeo di tradizioni storiche, artistiche, filosofiche, letterarie e scientifiche, coniugando il suo glorioso passato ad iniziative di alto valore culturale. Lo sta realizzando mettendo in mostra la sua origine e la sua storia, che parte dagli etruschi (alcuni dicono da pelagi), dagli umbri, dai romani fino al papato e risorgimento, passando attraverso le alterne vicende medievali, dei comuni, del rinascimento, della riforma e controriforma. Dalla storia  culturale di Perugia emerge comunque un grande umanesimo che permea ogni suo periodo, ogni sua iniziativa, ogni sua attività le cui vestigia fanno grande questa città. É un caso che Perugia sia stata la terza città in Italia (e una  tra le prime in Europa) a fondare una università (1308) dopo Padova e Bologna? É un umanesimo che fa parte della tradizione perugina, delle sue origini, del suo sviluppo e che permea ogni parte della città ove si respira il passato che è sempre presente. È un respiro che si incrocia con le pitture del Perugino e del Pintoricchio, con le opere dei grandi giuristi Bartolo e Baldo, con l’insegnamento medico di grandi professori quale Gentile da Foligno. É insomma un umanesimo che fa parte della tradizione perugina. Da condividere con l’Europa. Secondo la teoria della tradizione, sostenuta dai filosofi Popper e Gadamer, l’atteggiamento razionale di fronte alla tradizione è quello di valorizzarla, di scorgerne le intelaiature di fondo, puntando lo sguardo sul suo sviluppo e sul suo divenire. Con queste caratteristiche il successo è assicurato, poiché si espande e si esporta in Europa e nel mondo la ricchezza culturale di una città, di una regione. Sì, perché un altro punto forte di Perugia e di non correre da sola, ma di presentarsi insieme ai luoghi di S. Francesco d’Assisi e dell’Umbria intera. Allora quando si coniuga la raffinatezza di Perugia, con il fascino eterno di Assisi, si hanno le credenziale per essere in testa al sestetto competitivo. Il verdetto  emesso in ottobre,  sarà diramato entro il 2015. Incrociamo le dita.
C’è qualcosa di nuovo oggi a Perugia; al Comune è cambiata la maggioranza politica. Nulla di strano in un sistema democratico ove l’alternanza è la regola; è invece eccezionale nel capoluogo umbro ove la sinistra ha governato per circa 70 anni. Al ballottaggio elettorale dell’8 giugno 2014 il centro-destro ha battuto il sindaco uscente Vladimiro Boccali nella persona di Andrea  Romizi. Ed è subito storia. É una storia che ci lega localmente al XX giugno e  politicamente alla caduta del muro di Berlino. É una data da scrivere sui libri di storia di Perugia. Non interessa sapere se la vittoria di Romizi era prevedibile, né quali siano stati gli ingredienti. A politologi lascio il campito. A me interessa sottolineare che in politica nulla è scontato. Certo, la caratura di Romizi a candidato sindaco ha la sua valenza. E se è vero che la forza attrattiva dei partiti nelle elezioni amministrative in Umbra è stata ridimensionata a favore della personalità dei candidati, Romizi ha sgominato l’avversario perché ha offerto la disponibilità di recuperare la dignità della politica, facendo la propria parte, né demonizzando l’avversario (e ci voleva poco a farlo), né facendo riferimenti  alla trita diatriba anti e pro personaggi politici sulla via del tramonto. Ha creduto nella sua città, ha offerto ai cittadini la possibilità di una “smart” Perugia, ha acceso l’orgoglio di tutti a recuperare la “peruginità” storica e culturale di fronte alla discutibile politica municipale. Il neo sindaco aveva di fronte alternative chiare, specifiche, puntuali. O se le giocava a tutto tondo a beneficio dei  perugini, o entrava nel novero dei tanti personaggi che nei decenni hanno tentato di contrastare le sinistre. E in questo gioco ha vinto. Hanno certo contribuito la giovane età, il suo costante aplomb, il modo gentile di atteggiarsi, lo stare vicino a tutti a prescindere dalla posizione. Ma saremmo ingenerosi se ponessimo la vittoria di Romizi solo in rapporto a queste componenti. Egli si è riscoperto – come direbbe efficacemente Renzi – il Telemaco dell’Odissea, che non aspetta Ulisse ma gli va incontro, anzi lo precede nel cambiare le cose della sua Itaca. Romizi si è impegnato a cambiare Perugia, o meglio a ridare alla sua città quell’aura di vivibilità e di certezza, gradualmente dissolta negli ultimi anni. É vero, i perugini si aspettano una politica nuova che dia vivibilità alla loro città, certezza  alle loro aspettativa. Desiderano un centro storico fruibile in ogni momento del giorno con ripopolamento abitativo e commerciale, auspicano che Perugia esca da “capitale della droga” e punti  seriamente a “capitale  della cultura”, vorrebbero  che  gli studenti  siano ancora attratti dalle università dopo gli “inverni” di iscrizione degli ultimi anni, gradirebbero che i giovani siano nel cuore del  sindaco e che inizi veramente la crescita. I perugini  sanno che alcuni punti sono a portata di mano, per altri occorre più tempo. Aspettano, ma si inizi subito. Romizi ha conquistato la loro fiducia e sanno che è ben posta. Attendono risposta.
Recentemente, nella prima pagina dell’inserto “Domenica” del Sole 24 Ore, è comparso un articolo del Direttore, Roberto Napoletano, dal titolo: “La bella solitudine dell’Umbria e il gusto marchigiano”. É stata musica per le mie orecchie che nel tempo hanno raccolto le note scandite per esaltare le bellezze dell’Umbria e nelle quali abbiamo costruito  l’icona della nostra rivista. Nel leggerlo più di una volta emergono immagini abbozzate con la grazia di chi si avvicina alla regione quasi con venerazione, come accade a chi è alla ricerca di “cose” preziose di altri tempi, che però vogliono immergersi in un realtà attuale dai risvolti inediti. Ed ecco allora apparire aspetti religiosi legati non tanto all’atmosfera che discende dalla storia francescana o dalla tradizione benedettina ma alle manifestazioni popolari che affondano le radici nelle tradizioni locali. Queste componenti sono gli strumenti che veicolano i visitatori a cercare il senso perduto di trascendenza. Che ritorna nelle parole virgolettate del Direttore. “L’odore di legna bruciata, le campane  dell’Ave Maria, il silenzio che custodisce il rosso dei nostri bei tramonti, i borghi, la qualità della vita”. Nell’abbozzo di queste immagini c’è solo la verità di una regione che traspare bellezza interiore e fragranza esteriore, che lascia vivere in sintonia con una natura palpitante, ricca di sentieri silenziosi e di profumi medievali, di borgate ove sopravvivono antichi mestieri e inaspettati personaggi. É una natura dai pettinati filari di viti doc e docg e dai regolari uliveti dalle verdastri drupe. Ti affacci sulla pianura spoletina o ti arrampichi sulle pendici del Subasio e ti senti in sintonia con Francesco, scoprendo sensazioni che fanno la differenza.. Però non si può essere totalmente d’accordo con Napolitano quando esalta lo ”splendido isolamento” dell’Umbria, fino ad oggi tenuta fuori dalla grandi vie di comunicazione e dagli aeroporti che contano. L’isolamento è tutt’altro che splendido fino a quando teniamo fuori la bellezza umbra dall’Italia e dal mondo. Se anche la politica facesse la sua parte, forse l’Umbria diverrebbe “l’ombelico sano e profondo del Paese”. Immerso nel verde. É auspicabile che le recenti iniziative intenzionali si trasformino in realtà. Comunque un articolo sull’Umbria del “Sole 24ore” uno dei giornali più diffusi in Italia, rappresenta un messaggio pubblicitario di grande rilevanza. Prendiamone atto.

Il Turismo che salva

Martedì, 08 Aprile 2014,
Bene ha fatto la Regione Umbria a sponsorizzare con oltre 600mila euro la nona serie televisiva Don Matteo ambientata a Spoleto. In cambio uno spot in ogni puntata su siti turistici dell’Umbria. É un salto di qualità che “espone” turisticamente la Regione a testimonial di alto livello. É l’inizio di un percorso nuovo che esprime coraggio e determinazione ribaltando le ristrette logiche istituzionali in iniziative a favore di un segmento importante della nostra economia. Se è vero che il turismo sta vivendo una fase di grande trasformazione a causa di fattori interni ed esterni, è necessario  inserirsi nei meandri di tale trasformazione, poiché il turismo è la “migliore” azienda che abbiamo in Umbria anche se spesso ce lo dimentichiamo. È il nostro “petrolio” che dobbiamo sfruttare senza costruire pozzi. É un settore che non possiamo delocalizzare eppure viene trattato peggio di altri. Un’impresa come la Electrolux può trasferire in Polonia la produzione dei suoi prodotti, ma non la cattedrale di Orvieto, l’isola Polvese o le bellezze di Assisi patrimonio dell’Unesco. Eppure i governi e le istituzioni locali hanno investito poco e male e senza una strategia di largo respiro, forse perché non hanno creduto nel valore del turismo, non più fenomeno di èlite, ma movimento di massa. Dobbiamo crederci tutti, attivarci velocemente e coinvolgere tutte le componenti della filiera turistica, ognuna nel proprio ruolo, pubblico e privato, regione e consorzi di operatori. Non dimentichiamo che al marchio Expo di Milano del 2015 sono legati circa 21 milioni di turisti; cerchiamo di averne ricadute consistenti con iniziative intelligenti, nel solco di investimenti congrui che, tra l’altro, hanno rientri molto più rapidi rispetto ad altri settori economici per l’occupazione che creano e per l’ingresso immediato di denaro che veicolano. Certo è interessante vendere posti letto, ma lo è parimenti la promozione del prodotto storico, artistico, culturale, enogastronomico. Meglio ancora se offerti in un unico pacchetto. Anche perché il turista di oggi ha esigenze nuove; non si accontenta del buon albergo o dell’accogliente agriturismo, ma a questi vuole associare la visita a siti culturali, esige partecipare ad eventi storici ed infine gustare prelibatezze della cucina umbra. Dice Andrea Illy, Presidente Fondazione Altagamma, “Il turismo può salvarci; 150 miliardi in cinque-sette anni sono un +1% di Pil di crescita annua con una sola iniziativa, senza contare l’indotto indiretto potenziale”. E se parte di tale crescita cadesse in Umbria? È certo che il turismo può salvare  anche la nostra economia. Basta saperlo gestire senza demagogia ma con buon senso. Facendo rete, innanzi tutto. Non più una immagine “atomizzata”, ma unica e all’altezza della migliore tradizione umbra.
Perche Google investe in Africa per combattere le tre malattie che falcidiano il Continente: AIDS, Malaria, Tubercolosi? Perché  Tod’s investe 450 milioni di euro per restaurare il Colosseo? Per quale motivo Luxottica si impegna nella lotta alle malattie oculari del terzo mondo? Perchè la Novartis, azienda farmaceutica di spicco nel mondo eroga fondi e fornisce farmaci a basso costo per le zone depresse dell’Africa e dell’Asia?. E dalle parte nostre, cosa anima Brunello Cucinelli quando restaura l’Arco Etrusco di Perugia e costruisce un reparto ostetrico-ginecologico nel Malawi? E che dire dell’Umbria Cuscinetti che vince addirittura un premio per essersi attivato finanziariamente a sostegno del progetto Melanoma (tumore della cute)? Sono gli imprenditori siano diventati tutti filantropi o c’è qualcos’altro? E’ forse una forma estrema di pubblicità? Graham Fink, guru e icona della pubblicità mondiale nell’affermare che gli imprenditori, dopo aver risolto “i problemi dei clienti, ora provano a risolvere quelli del mondo”, sottolinea che è importante saper coniugare il messaggio commerciale alla responsabilità sociale. Ed è per questo che si ripete ovunque che oramai nel mondo “le aziende (non solo multinazionali) non perdono occasione per accompagnare i loro prodotti con una attività di charity”, come quelle sopra descritte. Non solo, in un contesto di forte calo pubblicitario le iniziative di Corporate Special Responsability (Csr) sono quelle che resistono maggiormente ai tagli di bilancio .A tal proposito è sufficiente pensare che l’80% delle pubblicità su l’”Economist” o sul “Financial Times” contengono un messaggio Csr. Gli imprenditori hanno capito che le scelte dei consumatori sono cambiate e seppure i tempi  siano difficili bisogna seguirli. Si arriverà a valutare i prodotti non solo dalla qualità ma dall’accompagnamento di iniziative Csr.  Nel Regno Unito il 25% della grande distribuzione vende banane solo se provenienti dal circuito targato Csr. o elettrodomestici di classe “+”. Allora non basta più il politically correct per il bene delle aziende, come non è più sufficiente  il culto del marchio, ma occorre pensare a fare i conti con i riflessi sociali delle medesime aziende. Certo per molte aziende non è tanto la mancanza di mezzi (oggi anche questi) nell’investire in Csr, ma la difficoltà di misurare il ritorno, i vantaggi che ne possono derivare. Ma chi ha investito in tal senso afferma che la ricaduta ci sarà, anzi già c’è. In Umbria Cucinelli e Umbria Cuscinetti stanno a testimoniarlo.
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