Il tartufo e il suo segugio

Giovedì, 03 Dicembre 2015,
La grande caccia inizia dopo la pioggia, insieme ai segugi del diamante nero. Il cane ha un senso dell’olfatto molto sviluppato, oltre cento milioni di volte superiore al nostro. E la parte terminale del suo naso si chiama rinario, ma anche tartufo, forse per la forma e il colore. La golosa ricerca di questo pregiato fungo ipogeo è affidata al binomio inscindibile tra l’esperienza dell’uomo nell’individuare le piante con cui vive in simbiosi - roverella, nocciolo, leccio, faggio, quercia- e l’infallibile fiuto del suo cane che, trovato il punto esatto, scava freneticamente per portarlo alla luce. La razza migliore secondo gli esperti è il “lagotto romagnolo”, proprio per il suo notevole olfatto. Al nord, in Piemonte, lo chiamano “tabui”, il mitico cane del “trifolao”, il cercatore di tartufi. Da noi sono detti “tratufanari” i  cercatori  e “tratufani” i tartufi, voci dialettali in uso già nel 1400 negli statuti spoletini. I paesaggi boscosi dove perdersi camminando, i profumi, la cantilena del cercatore, i musi concentrati e la danza di code quando il tubero è finalmente trovato sono un bell’esempio di antico rituale e di collaborazione fra l’uomo e il cane, un “asso della cerca” addestrato al riporto. Una attività vietata oggi in Italia senza i quattro zampe, perché solo loro sanno fiutare i tartufi maturi, senza danneggiare le tartufaie cavando quelli acerbi. Dagli “statarecci”, come si chiamano qui in Umbria gli estivi – i tuber aestivum Vittadini – che si raccolgono da giugno a settembre, detti anche scorzoni per via di quella scorza ruvida, a quelli autunnali, gli uncinati profumati, ma sempre meno pregiati di quello invernale che portiamo sulla tavola festosa del Natale, il pregiatissimo melanosporum, nero fin dentro l’anima. Scontenti i cercatori quando raccolgono le “caciole”, quei piccoli tartufi color nocciola, dal sapore agliaceo e non commerciabili: "Ho giratu tantu e c’ho la catana vòta, lu cane m'ha 'rportato giustu du' caciole!  Ho camminato tanto e ho il tascapane vuoto, il cane mi ha riportato solo due caciole”. Si chiamava infatti “catana” la bisaccia del cercatore di tartufi. Lì i tartufi stavano al riparo dal caldo e dal freddo. Era rigorosamente di cuoio, mai di stoffa, chè non avrebbe conservato al meglio i preziosi tuberi raccolti. Il mondo del tartufo, bianco e nero, è un mix di tecnica e legame con la natura e golosa tradizione culinaria. Una realtà in cui c’è un continuo lavoro di tutela del territorio e del consumatore, che affonda le sue radici nella tradizione e nel piacere immediato racchiuso nel pregiato tubero, tanto che il modo migliore per preservarne le caratteristiche è mangiarlo subito in ricette semplici e conservare poi in memoria la sua fragranza. Tesserino, borsa, zappette, bastone, certificazioni e università. Sì perché esiste persino l’Università dei cani da tartufo. La razza qui non è così importante, conta l’addestramento del cane che viene condotto nei boschi a fare esperienza e restituito poi al proprietario pronto per la cerca. Fondata nel 1880 a Roddi d’Alba, in Piemonte, da Antonio Monchiero e ufficializzata nel 1935 durante la V Fiera del Tartufo bianco d’Alba. Per andare insomma alla cerca con un alleato  prezioso: un cane “laureato in tartufologia”.

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