Editoriale (36)

Alla Luiss Guido Carli di Roma, Università della Confindustria, si è svolto recentemente un convegno su un tema di crescente interesse economico: il rapporto tra profitto, sostenibilità e diritti umani. Ciò a significare che non c’è profitto senza sostenibilità, non c‘è crescita se non si rispettano i diritti umani. Il convegno è stato promosso dal Comitato Italiano della Camera di Commercio Internazionale (alla quale aderiscono organizzazioni imprenditoriali, Camere di Commercio e aziende  di oltre 130 Paesi) e dal Centro Ricerche della Luiss. Erano presenti  relatori e accademici di livello internazionale, rappresentanti di alcune note imprese mondiali (Microsoft, Coca Cola, Gucci, Enel, Eni), esperti di organizzazioni non governative (Fao, Oxfam, Fondazione Avsi, Ituc-Associazione Internazionale dei Sindacati). L’iniziativa della LUISS fa pendant con un analogo meeting svoltosi al Teatro Cucinelli di Solomeo, ove è stato presentato il libro “Ripensare il Capitalismo” di Philip Kotler. Due eventi per sottolineare un solo aspetto, vale a dire il nuovo ruolo dell’impresa in un mondo che auspica un buon uso della ricchezza, una virtù che per molti è più difficile possedere rispetto alla capacità di diventare ricchi. Anche se l’impresa è ancora oggetto di una cultura anti-industriale che mira a demonizzare il profitto che si vuole contrapposto alla solidarietà, quale fosse un valore ad essa antitetico. L’idea che tende a ridimensionare tale  sillogismo sta facendosi strada anche in Italia, pur con evidente difficoltà. Basti pensare che negli Stati Uniti già alla fine del XIX secolo profitto e solidarietà già andavano a braccetto. Due esempi per tutti: Andrew Carnegie e John D. Rockefeller, due grandi imprenditori americani che hanno aperto la strada ai giganti della filantropia moderna, hanno visto il conto delle loro donazioni  riportato sui maggiori giornali per molti anni a partire dal 1903. Anno in cui il London Times affermava che Carnegie aveva donato 21 milioni di dollari e Rockfeller 10 milioni. Nel 1913 il New York Herald riportava in 332 milioni di dollari il contributo di Carnegie e in 175 milioni quello di Rockfeller. Tutto accadeva quando ancora non c’erano incentivi fiscali alle donazioni. Con l’avvento di nuove detrazioni fiscali le donazioni crebbero a dismisura con sostegno principale all’istruzione: università, enti di ricerca, scuole, biblioteche, borse di studio. Anche in Italia dopo oltre un secolo è stata approvata una legge a favore delle donazioni e stanno iniziando iniziative filantropiche. Suddivisibili in tre settori: solidarietà, mecenatismo, dignità. Con la solidarietà si condivide con chi ha meno, con il mecenatismo si attivano iniziative culturali e recupero di opere d’arte, con la dignità – soprattutto dei lavoratori – si attua il maggiore dei messaggi evangelici: ama il prossimo come te stesso. La triade filantropica permette a qualsiasi impresa, comprese quelle che si occupano di moda e di lusso, di entrare a pieno titolo nelle multiformi vitalità della società, non tanto e non solo perché qualcuno “vuole restituire qualcosa”, ma essenzialmente perché desiderano contribuire alla crescita culturale della nazione. In sintonia con l’insegnamento di Michael Novak, uno dei maggiori teologi ed economisti americani: “La filantropia è il latte materno della società civile. Senza bisogno di rivolgersi allo Stato, qui le persone si volgono l’una verso l’altra e realizzano obiettivi di pubblico interesse”.
“É nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato”, scriveva Albert Einstein negli anni ’50. E noi aggiungiamo in tono meno  aulico ma storicamente più robusto perché di stampo latino: “Mater artium necessitas”, la necessità aguzza l’ingegno. E mai come in questo tempo di crisi, che ci riporta al secondo dopo guerra, assistiamo ad un florilegio di iniziative, di star-up, di invenzioni ed anche di brevetti. Negli ultimi anni l’Ufficio europeo dei brevetti ha pubblicato 14.000 domande con prevalenza del Manifatturato avanzato (69.5%), Biotecnologia (6.8%), Micro e nano elettronica (5.7%). Nel campo della tecnologia green i brevetti italiani sono cresciuti del 5.4% e quelli del Ket (Key Enabling Technology) dell’1.1%. Nel complesso le tecnologie abilitanti sono ritenute capaci di innovazioni accelerate in modo trasversale. Scendiamo un po’ in basso. Se è vero che la crisi è un’occasione per ritrovare fiducia, per adottare un approccio resiliente, per coinvolgere in questo percorso le formazioni giovanili, l’obbiettivo è in progress. O meglio, stiamo navigando in una rivoluzione culturale incredibile per l’Italia fino a poco tempo fa. Oggi, se un giovane ventenne decide di fare l'imprenditore, non si evoca più la figura del figlio di papà, ma di un creativo, che rischia e che si mette in gioco. Fotografano questa rivoluzione le pagine di un libro: “Il Sud vola. Viaggio tra start-up e giovani innovatori” di Alessandro Cacciato (Edizioni Medinova), recensito recentemente sul Sole24 Ore.  Si scopre così che in Sicilia – terra di storie e di povertà – si è deciso di scommettere su artigianato e digitale, su scuola e territorio che finalmente dialogano e si aprono a giovani di buona volontà e alle menti migliori. “Questi ragazzi e ragazze non hanno ceduto alla disperazione, ma si sono anzi ingegnati per fare impresa nella legalità, cercando di riappropriarsi del loro territorio, lontani dalle logiche della clientela politica e dall’azione delle mafie”. Certo, le start-up non risolvono la crisi economica della Sicilia e del Mezzogiorno, ma sono segnali tangibili di ripresa poiché alimentano speranze, potenziano talenti, trasmettono saperi e fiducia. Non solo, queste iniziative valorizzano tesori artistici, scoprono borghi e paesi devastati dall’incuria, creano centri culturali. A Favara (Agrigento) hanno addirittura istituito il Museo delle Persone dotato di una galleria d’arte contemporanea che ospita i maggiori artisti emergenti internazionali. Con grande ricaduta sul turismo. Se questo messaggio culturale partito dalla Sicilia potesse risalire l’intero stivale, molti dei nostri problemi economici e occupazionali sarebbero in via di risoluzione. Sarebbero così ancora attuali le parole di Antonio Gramsci: “Preparatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza. Studiate, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza”. E allora, entusiasmo, forza, intelligenza rappresentano un trittico che serve all’Italia per superare la crisi e progredire.

È tempo di pace

Mercoledì, 23 Marzo 2016,
É tempo di pace, di anelito di pace, di sostegno alla pace, di costruzione di pace. Ma come si costruisce la pace? I Romani dicevano “si vult pacem para bellum”. E di guerre ne hanno fatte tante per assicurare la pace in gran parte dei territori del tempo. In fin dei conti la guerra è solo lo spostamento di confini di popoli, con conseguenze devastanti per tutti. Anche se la storia ha qualche volta dato ragione ai Romani, noi non intendiamo la pace come assenza di guerra, ma come manifestazione e anelito dello spirito umano e ricerca di tutti quei valori che sostentano la convivenza nel pianeta terra. Parole – sussurra qualcuno –, a fronte dell’attuale “terza guerra mondiale combattuta a pezzi” come definisce Papa Francesco l’insieme dei conflitti mediorientali e nordafricani con i conseguenti esodi biblici che stanno punteggiando la storia dei nostri giorni. É vero, ma noi abbiamo sempre bisogno di profeti (attenzione a quelli falsi) che indicano la strada di una pace sostenibile, e a questi dobbiamo credere. La pace si raggiunge con l’impegno di tutti, non cade dall’alto. É una pace che non deve seguire una guerra (a  differenza della politica dei Romani) ma che deve evitarla. Al limite, come diceva l’esegeta Carlo Carretto: “Anche la guerra difensiva non si può più giustificare, viste le spaventose conseguenze provocate dalla semplice difesa”. So che le parole di Carretto non sono da tutti condivisibili, viste l’attuale scenario geopolitico mondiale. Un motivo in più per attuare tutte le pratiche per evitare la guerra. Esaltando il concetto di pace, ma non solo a parole o con manifestazioni cosiddette pacifiste, ma con la cultura della pace, inculcandola fin dall’età scolare in ogni cittadino. Va in questa direzione l’ambiziosa iniziativa nazionale “Pace, fraternità e dialogo. Sui passi di Francesco” volta a diffondere l’educazione alla pace nelle scuole, con la partecipazione del Miur, gli Enti locali per la pace, la rete Nazionale per la pace, la rivista “San Francesco Patrono d’Italia”, la tavola della pace, le istituzioni e le testate giornalistiche che hanno a cuore la pace. La pace quindi entra nella scuola da protagonista, per lasciare un segno indelebile: quello culturale. Con un programma che prevede un laboratorio di progetti in cui gli studenti siano i protagonisti, presentati al Meeting nazionale delle scuole di pace che quest’anno si tiene ad Assisi nel mese di aprile. Con un programma che risponda alle esigenze espresse dai giovani, con tematiche modulate dai giovani (comprese informazioni sulle guerra e discussioni sull’antico assioma dei Romani). Perché ad Assisi? Perché la “città del Poverello” esprime una pace diversa, cercata (anche se ancora non realizzata) dai potenti del mondo a cominciare da Papa Giovanni Paolo II. Certo, la pace di Assisi non è legata ad equilibri politico-partitici, né alla deterrenza delle armi, né all’esercizio delle fredda diplomazia, ma solo all’impegno costante per l’uomo. In questo contesto i giovani ad Assisi saranno i protagonisti.
É tempo di bilanci. Entrati nel primo lustro di vita di Riflesso la riflessione è d’obbligo. La riflessione sul passato che modula le prospettive del futuro. É un passato che ha rispettato le nostre attese, ma che suggerisce altri obbiettivi, sempre all’insegna dei valori di bellezza, di novità e del “piccolo” che piace, che sorprende, che fa conoscere ciò che non  ti aspetti. Vogliamo consolidare queste componenti per rendere felicemente aggiornati e gioiosi i nostri lettori, poiché senza gioia non si può vivere. Facendo felice un altro noi compiamo una sorta di miracolo dell’anima. Ricorda lo scrittore russo Dostoevskij in “Delitto e Castigo” che Cristo fece il primo miracolo alle nozze di Cana – così come riportato nel Vangelo –, non tanto per aiutare gli esseri umani in difficoltà, ma per  far festa cambiando l’acqua in vino, insegnando così che chi ama gli uomini ama anche la loro gioia. E nel prossimo futuro continuiamo a seguire questo assioma, anzi vogliamo consolidarlo, amarlo, renderlo godibile. Abbiamo iniziato il nostro percorso evidenziando le bellezze culturali umbre, per poi allargare il nostro orizzonte prima a Montecarlo, e in seguito a Milano e Lombardia, quindi ad altre regioni italiane. Passando per Miami. Ora siamo ambiziosi di estendere il nostro messaggio su scala nazionale, con l’umiltà e la determinazione di apportare uno spiraglio di gioia a chi ama le bellezze del nostro Paese e non solo. Il nostro obbiettivo è quello di affiancare a bellezze eclatanti chicche culturali meno note, poiché riteniamo che non esistano scale di bellezza. Ce lo insegna anche quel “geniaccio” di Vittorio Sgarbi che in vari giornali illustra una pittura bella ma non valorizzata, esistente ma non godibile, affascinante ma non esternata. Anche in futuro vorremmo sviluppare il sogno di pochi in patrimonio culturale di tutti, preservando identità e interesse.  L’interesse di diffondere ambiti anche poco noti ma che contribuiscono a costituire la storia della nostra Italia, con l’intento di favorirne lo sviluppo e la diffusione della cultura. Con Riflesso si vuol far maturare la consapevolezza della rilevanza di aspetti collegati alla cultura: arte, architettura, letteratura, paesaggio, borghi, design, turismo, lusso, enogastronomia. E tanto Made in Italy. Mediante un sapiente lavoro di squadra. Vorremmo far emergere la cultura coniugata all’etica del management e all’intreccio di relazioni fra imprese, istituzioni e territorio. I sostenitori del nostro progetto editoriale sanno che immergersi nel programma veicolato da Riflesso equivale a farsi viatico di sostegno delle opere culturali che attendono solo di essere scoperte e fatte leggere al mondo. Gli eventi e le iniziative che ruotano intorno a Riflesso rappresentano il complemento di una consapevole “voglia” di crescere all’insegna della professionalità e della costante ricerca del bello.
I Romani avevano capito tutto sul vino, compreso il contenuto dell’aforisma del titolo. Ma anche coloro che sono venuti dopo non scherzavano. Aver inserito un bicchiere di vino per pasto nella dieta mediterranea, la più salutare nel mondo, la dice lunga sul ruolo del nettare degli dei nella vita dell’uomo. La sua espansione senza confini ne è la logica conseguenza. E sappiamo che i vini delle migliori selezioni italiane raggiungono i calici di tutto il pianeta. C’è di più. L’Italia del vino quest’anno supera la Francia nell’annoso derby della produzione: 48.8 milioni d’ettolitri per noi, 46.4 per i cugini (36.6 per la Spagna eterna terza). Nell’altrettanta tradizionale sfida regionale di qualità di vini la Toscana supera il Piemonte per 79 a 75  etichette con il massimo punteggio, nel gergo enologico “tre bicchieri”.  Ce lo racconta la guida “Vini  d’Italia 2016” del Gambero Rosso (giunta alla 29° edizione) decretando appunto che la regione del Chianti, del Brunello, del Bolgheri è la regione con più “tre bicchieri”. Alla regione del Barolo, del Barbaresco, del Barbera va il secondo posto con “solo” 75 “tre bicchieri”. Seguono in classifica le grandi regioni vinicole del Nord-Est (Veneto, Alto Adige, Friuli Venezia Giulia,Trentino) con complessivi 111 “tre-bicchieri”, di cui 80 verdi, ovvero prodotti da vigneti in coltura biologica o biodinamica. Da notare che il 26% dei “tre bicchieri” sono sotto i 15 euro a bottiglia. Nel sud svetta la Campania con 21 etichette, la Puglia con 13 vini d’eccellenza. Nelle isole guida la classifica la Sicilia con 33 “tre bicchieri” che supera la Sardegna ferma a 13. Al centro, oltre alla vincitrice Toscana, si pone in evidenza l’Umbria con 10 “tre bicchieri” di cui ben sette conferiti al Sagrantino di Montefalco. Su questo vino è stato presentato alla EXPO un libro dal titolo molto accattivante: “Gli aspetti salutistici del Sagrantino”, ove sono stati confermati con dati scientifici le esperienze empiriche che i Romani, e poi altri, avevano accumulato nei secoli. In sintesi nel Sagrantino c’è Salus in termini di protezione del cuore e delle arterie e di mortalità cardiovascolare, per il più elevato contenuto nel mondo di polifenoli e antociani che la scienza medica indica come preventivi delle malattie cardiache. Studi in tale direzione sono stati confermati dalle indagini cliniche sperimentali attivate sul Sagrantino dal patron di Rossobastardo Luciano Cesarini. Un commento a questi dati statistici e clinici si impone con una domanda. Perché tanto interesse per il vino? Perché va inserito nel più ampio interesse per i campi, un tempo lasciati al loro destino ma oggi rivalutati nella consapevolezza che la terra può dare all’uomo una ricca e salutare alimentazione, un argomento centrato anche da EXPO 2015.
Operano soprattutto nel settore agroalimentare, ma non mancano moda, arredo, turismo. Nel complesso sono 170 piccole e medie imprese (Pmi) su 400 selezionate che hanno avuto la possibilità di far conoscere i propri prodotti ai visitatori dell’Esposizione e ai buyer internazionali, attraverso il progetto “Ecco la mia  impresa”, organizzato da Intesa Sanpaolo, ospitato all’interno del suo padiglione Waterhouse. È una vetrina internazionale delle eccellenze regionali del sistema produttivo italiano. È una risposta all’insegnamento di Expo che indica nella fase espositiva delle nostre aziende il miglior viatico di successo. È soprattutto una forte spinta di ripresa ed un robusto vento di export italiano che spira ancora debolmente. Ed è proprio il grado di internazionalizzazione   il primo criterio selettivo delle Pmi a partecipare a “Ecco la mia impresa”; gli altri due sono: capacità di innovazione, rappresentatività del tessuto manifatturiero italiano. Il 60 per cento delle imprese appartiene al mondo agroalimentare, il 20 per cento al settore moda-design, il 16 per cento all’arredamento, il resto al turismo. Sono Pmi che pur facendo il possibile per stare a galla e pur rappresentando il meglio del made e dell’innovazione in Italy difficilmente avrebbero potuto trovare una vetrina così trasparente e prestigiosa per i loro prodotti come l’Expo. Queste aziende sono la parte sana e vincente di quella spaccatura tra quelle che si sono lanciate o rilanciate e lavorano all’estero e le Pmi che non sono o e non possono essere in grado di reggere l’urto con la crisi. Tra le prime spiccano delle piccole e medie imprese che producono prodotti di alta qualità, come quelle presenti all’Expo; tra le altre si annoverano quelle aziende in crisi per difficoltà a effettuare la pianificazione del lavoro, malgrado gli sgravi contributivi del Jobs Act. Su tutte comunque pesa l’incertezza e la sfiducia si avverte soprattutto nelle realtà di piccole dimensioni che si rivolgono, secondo  Paolo Galassi, presidente Api (Associazione piccole e medie industrie), “alle associazioni, ai corpi intermedi, per la tutela dei propri interessi nella consapevolezza che presentarsi come unità compatta omogenea e numerosa  sia l’unica strada per far sentire la propria voce e fare impresa”. Lo hanno compreso tutti i partecipanti a “Ecco la mia impresa”, tra i quali Agrimech Umbria, una rete di imprese costituita, grazie alla Confindustria Umbra e alla Cassa di Risparmio dell’Umbria, da otto realtà regionali specializzate in macchine agricole, con 150 milioni di fatturato e 400 dipendenti. È eloquente il commento di  Enzo Faloci, direttore di Umbria Export, braccio operativo della rete: “Essere qui a EXPO ha per noi un valore promozionale e istituzionale, più che commerciale. Dove altro può capitare di incontrare in un solo colpo 30 operatori da 20 Paesi diversi?”  Per un’azienda, appunto l’Agrimech, “nata proprio con lo scopo di sviluppare sotto un unico brand il grado di internazionalizzazione delle sue imprese”.  All’Expo 2015 di Milano accade anche questo.
“Il bello è promessa di felicità” asserisce il filosofo tedesco Theodor Adorno(1903-1969). Promessa non felicità. Di fronte a un quadro di Picasso, a uno scorcio sulle Dolomiti o a un tramonto all’isola di Capri percepiamo una bellezza che si fa sentimento che vorremmo prolungare nel tempo per continuare a essere felici. Il bello è sì presente nell’immediato, ma si consuma come veicolo di felicità nel futuro. E talvolta come tormento se non la si raggiunge. Ce lo ricorda Michelangelo Buonarroti (1476-1564): “Se durante la mia giovinezza mi fossi reso conto che l’immortale splendore della bellezza di cui ero innamorato avrebbe acceso, rifluendo verso il cuore, un fuoco di infinito tormento, come avrei spento volentieri la luce nei miei occhi”. Molto prima di Adorno, quindi, Michelangelo, che tanta bellezza ha creato e diffuso nel mondo, aveva percepito che il canone di bellezza è trasferibile come promessa di felicità e di desiderio di riviverla. Ed anche la bellezza naturale, quella che risplende dai monti o che traspare dalla delicatezza delle farfalle o dall’alternante luccichio delle lucciole o dalla perfezione della fioritura primaverile, crea in noi  piacere che vorremmo rigenerare in futuro come appunto promessa di felicità. Però attenzione. Si dice che la bellezza ci salverà. Da che cosa? Dalla disperazione. In momenti di sconforto, di buia sfiducia, di ombra di avvilimento, fermiamoci un momento per osservare qualcosa di bello o richiamare alla memoria, anche con nostalgia, icone di bellezza, che anche in questo contesto ci salva perché promette felicità. Allora accostiamoci al bello, un valore che è stato dissacrato dalla cultura contemporanea, come a uno dei più profondi lati segreti e nascosti della realtà. Dissacrazione determinata da una non sopita ideologia anti-borghese (tutti i capolavori di scultura, pittura, letteratura e poesia respinti perché borghesi) e nichilista. Il bello ha avuto in sorte il privilegio di rivelarsi nella dimensione del fisico – asseriva Platone – ossia mediante i sensi e segnatamente gli occhi. Ma con la vista non si vede la saggezza, ma si assapora la bellezza nella sua forma più manifesta e amabile. Alla Expo di Milano intesa come  vetrina di cose belle (poiché ogni nazione ha esposto il meglio di sé), chiedete ai visitatori cosa maggiormente li ha impressionati: la vista di tanta bellezza concentrata in una infinità coreografica da godere e da portare a casa, certo per vagliarla con le categorie della saggezza, ma anche per assaporarne i contorni che danno  felicità postuma. Chiedete all’astronauta Samantha Cristoforetti, in questi giorni di ritorno dalla Soyuz, come ha vissuto la bellezza dello spazio e dello stivale italiano illuminato di notte, e come la trasferisce nella sua vita “terrena” per assaporarne o riviverne le componenti emotive in un futuro senza fine perché avvolto dalla bellezza del mondo che pochi occhi hanno avuto la fortuna di sperimentare. Allora la terra non più “atomo opaco del mal” come la definiva il poeta Giovanni Pascoli, ma “atomo sorgente di bellezza” come deve averla vista Astro-Samantha.
Fino a qualche mese fa ci voleva un atto di fede - qualcuno asseriva - nel credere nel successo di  EXPO 2015. Poi è venuto il miracolo. Tranne qualche sbavatura, inevitabile in un’impresa di tale entità, tutto procede meglio di quanto si sperava. Bene il numero iniziale delle prenotazioni dei  visitatori, bene le opere costruite ad hoc, magnifici i padiglioni e  i vari edifici, imponente l’albero della vita, più che positivo il bilancio occupazionale fin dalla fase di cantierizzazione. Un trend che continuerà ovviamente durante il periodo dell’Esposizione, ma anche dopo, con 12.7 miliardi di produzione aggiuntiva sul territorio spalmati fino al 2020 e con la nascita di 11mila nuove imprese di cui la metà in Lombardia. Sono previsti 20 milioni di visitatori, cioè il doppio di quelli ospitati a Milano per la EXPO del 1906. Ma al di là dei numeri e cifre, c’è da chiedersi quale sia il vero significato della EXPO e cosa  rappresenti l’evento per l’Italia. Anche oltre il  ruolo della tecnologia nell’edificazione e gestione dell’EXPO. Polarizzare invece l’attenzione sulla cultura e sui valori  significa ripensare il significato dell’evento nei vari settori espositivi. Certo, l’Esposizione universale dedicata al tema “Nutrire il pianeta, energia per la vita” solleva un’infinità di problemi risolvibili non sempre con l’economia ma sempre con il cuore. Con la cultura e la spiritualità l’EXPO diventa un luogo dell’ascolto, come sottolinea il Cardinale Angelo Scola, un’occasione preziosa per riconoscere la bellezza di appartenere ad un’unica famiglia umana, che per chi crede, è la  famiglia di  Dio, e per rilanciare l’impegno contro la fame del mondo. Scola - a nome di tutti gli uomini di buona volontà - ribadisce che partire dalla fame del mondo è condizione ineludibile “per promuovere l’uomo contro la cultura dello scarto”. L’impegno della EXPO è sì porre l’uomo al centro, ma bisogna farlo oggi in una società caratterizzata da processi difficilmente controllabili dall’uomo stesso. L’esposizione sarà allora il luogo privilegiato per scandagliare le cause della fame, “cercando quali nessi virtuosi instaurare tra l’affronto di questo tema, le sue premesse e le sue implicazioni economiche, politiche e educative, delimitando in tal modo il peso della tecnocrazia”. Anche se l’impronta della tecnologia a Milano Expo la fa da padrona. E non potrebbe essere così considerata la valenza tecnologica in ogni settore espositivo. Dalla connessione costante con i sistemi digitali, alla mobilità sostenibile e alla smart grid, dai satelliti della Eutelsat a copertura dell’evento, alla technogim o alla palestra del futuro lungo le isole interattive del Decumano. Tutto tecnica ma anche molta cultura. Quale? Oltre a quella insita nella tradizione e innovazione  agroalimentare presenti in Italia e nel mondo, la cultura trasuda dal contenuto artistico presente nei vari padiglioni a partire dalle opere di Leonardo Da Vinci, dai dipinti di eminenti pittori e scultori italiani voluti da Vittorio Sgarbi nei vari angoli o “salotti” della EXPO, dai numerosi incontri, tavole rotonde, presentazioni che si inanellano per l’intero periodo espositivo. Il tutto condito da un ricco food nel segno della sostenibilità e della conoscenza dell’eccellenza italiana.
C’è un legame tra scienza e umanesimo? Forse possiamo trarre una risposta anche dal meeting che si svolge a Foligno nel mese di aprile su: Scienza e Filosofia. Quello folignate è un inedito appuntamento annuale che coinvolge scienziati ed umanisti alla ricerca di un quid che potrebbe interessarli nell’attività di studio, di diffusione, di applicazione. Se mai esiste un quid. Scopriamolo mettendo a confronto, seppure a distanza, due  noti personaggi:  uno scienziato, Roberto Cingolani, e l’altro, filosofo, Dario Antiseri. Il primo, milanese di nascita, è il direttore dell’Istituto italiano di Tecnologia (Iit) con sede a Genova, con 1200 ricercatori provenienti da tutto il mondo. In tre anni l’Iit ha sfornato 169 brevetti che vengono venduti ad aziende interessate a tradurli in operatività. Ma brevetti di cosa? Ce lo spiega il recente libro di Cingolani: “Il mondo è piccolo come un’arancia”. Piccolo come la nanotecnologia che sta cambiando la nostra vita con la rivoluzione dell’invisibile. Ed allora robot, nanostrutture, micropresidi medici, advice sportivi, strumenti aerospaziali e nautici. Cingolani sta poi trasferendo la nanotecnologia sui sistemi umani e umanoidi. Sua è la realizzazione del robot iCub che può sostituire l’uomo in molte attività umane fisiche. Insomma Cingolani è un campione dell’innovazione tecnologica italiana. Che non mette però la cultura umanistica all’angolo. Anzi la ravviva quotidianamente convinto come è che la scienza ha bisogno di un continuo supporto intellettuale, anche di ordine filosofico. Ciò  può apparire un lusso che pochi si permettono, ma è un lusso necessario. Anzi è una sfida. Una sfida che l’altro personaggio, il filosofo Dario Antiseri, folignate di nascita, già docente  di epistemologia alla LUISS di Roma, ha raccolto scrivendo (insieme a Giovanni Reale recentemente scomparso) “Cento anni di filosofia. Da Nietzsche ai nostri giorni”. Antiseri, uno dei massimi esponenti della filosofia italiana, non è nuovo a tali imprese. Questa opera è la documentazione dell’immane lavoro che il pensiero umano ha compiuto nel mondo durante il “secolo breve”. É un lavoro sterminato in cui si privilegiano giustamente i grandi filosofi, quali Freud, Husserl, Croce, Heidegger, Wittegenstain, Popper, ma che offre largo spazio anche  alla scienza, al pensiero scientifico e ai temi che l’affiancano: epistemologia, neuroscienza, bioetica,  biopolitica. É affascinante il capitolo sulle scoperte mediche, sulla metodologia del lavoro degli scienziati, sull’interconnessione tra i vari settori del sapere umano. L’opera offre largo spazio alla filosofia italiana, ne mostra il nesso con il resto del mondo, del cui pensiero speculativo l’Italia non è una minuscola propaggine, come qualcuno pensa. Antiseri fa propria l’asserzione per cui la filosofia al giorno d’oggi è quanto mai viva. Tutte le grandi domande sull’uomo, sull’universo  scaturiscono da una prospettiva filosofica. E una volta “visto” cosa è l’uomo, si può studiare come sopravvive nell’ambiente che occupa, gestendo tutti i rischi  che presenta il mondo, sfruttando tutte le opportunità che la scienza offre all’uomo. Come la robotica e la nanotecnologia che Cingolani  inventa per l’uomo, come ponte tra  scienza e umanesimo.
In Umbria da tre anni, su carta. In Lombardia da una anno, sul web. É arrivato il momento di unificare le due realtà in una sola rivista. Così Riflesso dal 2015 diventa cartaceo inglobando le due regioni. A che pro? Ricorda Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda, che “quando un Paese non riesce a occuparsi dei cervelli, del brain, si occupa del cemento che non produce nulla”. Sarà anche vero, ma che dire dei suoi “50 progetti per far volare Milano”, un’iniziativa ambiziosa per far crescere le imprese insieme al territorio che le ospita? Ma soprattutto come non ricordare la definizione di Cattaneo (citata dallo storico Giacomo Bascapè nel suo libro sul Naviglio milanese) della Lombardia, “come di un grande deposito di fatiche, che si tradussero in innovazione e trasformazione di un territorio e di un’economia”. Compreso il costruendo grattacielo più alto d'Italia che svetta su tutta Milano: 202 metri di faccia ricurva dell’architetto Arata Isozaki. E come se non bastasse Expo 2015, già si pensa al dopo, lavorando alla nascita di una Silicon Valley locale utilizzando le eccezionali condizioni infrastrutturali e di digitalizzazione attivate dalla medesima Esposizione. A partire proprio dalla Expo 2015 sono da leggere  le iniziative espansive di Riflesso. L’Umbria vuole partecipare alla kermesse con i propri prodotti che non sono cementificazioni, grattacieli, smart-city, silicon valley tascabili, ma con fattori legati all’arte e alla cultura, alla ricerca e alla scienza della vita, alla storia, al profumo della natura, al gusto delle cose belle, alla scoperta di opere piccole ma leziose, alla valorizzazione di soggetti non in prima fila ma che fanno la storia. L’Umbria si propone con personaggi tipo Brunello Cucinelli imprenditore “filosofo”, attento alle esigenze delle maestranze ma anche della borsa, coniugate ai canoni del moderno mecenatismo. Ci si chiede quali siano le ricadute dell’estensione della rivista sull’Umbria. Conoscenza e diffusione dei valori e dei prodotti della Regione anche a fini turistici. Per i lombardi e per i milioni di visitatori che si recheranno all’Expo. C'è di più. Riflesso ha l’ambizioso disegno di spingere l’Umbria a illustrare ciò che conta e vale in termini di raffinata atmosfera di tradizioni, pressoché incontaminata dalla frenesia delle moderne scelte di vita. A chi? Alla Lombardia ed altre regioni quali Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Puglia e Abruzzo che cominciano ad affacciarsi sul magazine già da questo numero. Per dare, ma anche per ricevere ciò che di meglio offrono questi territori, in un scambio culturale che contagia mente e spirito. Con proiezioni anche verso l’estero. Riflesso si sta consolidando con il Principato di Monaco, e da quest'anno salperà anche sulle onde dell’Atlantico fino a Miami.
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