Editoriale (36)

Nulla c’è oggi che non sia contaminato. Non da germi ma da accostamenti che fanno tendenza. Se vai a Venezia nell’imponente palazzo del  XIII secolo situato di fronte al Ponte di Rialto e restaurato dall’archistar Remment Koolhaas all’interno trovi non solo lo shopping tra i migliori marchi (con prevalenza del made in Italy), ma anche raffinate espressioni di arte e cultura che coinvolgono gli astanti. Il tutto  fa  pendant con un ristorante di primo livello e bistrot Amo a firma del tristellato Massimiliano Alajmo. Qui si festeggia il primo anno di vita del regno del lifestyle di T Fondaco dei Tedeschi, leader mondiale nel travel retail di lusso Dfs Group. Ma passando da una parte all’altro del palazzo ti accorgi appena di chi ha organizzato l’emporio del  lusso. Al primo piano accanto all’artigianato veneziano trovi un’accurata selezione di prodotti enogastronomici, mentre sotto la grande cupola dell’ultimo piano fa mostra di sé l’Event Pavillon pensato per ospitare eventi, incontri e installazioni artistiche. Il tutto come espressione massima del diffuso fenomeno della contaminazione. Un’altra testimonianza è estraibile dalla manifestazione Lucca Comics per sua natura ibrida con tante contaminazioni che vanno appunto dai fumetti  alla narrativa, cinema, mostre, arte, pittura, spettacoli e ristorazione tipica a  gogò. C on la presenza speciale di Netflix a testimonianza delle felice e feconda contaminazione tra arti e supporti, dalla carta al piccolo schermo, alla storyboard cinematografico. Contaminazione  che possiamo recepire anche in ambienti e manifestazioni  meno famose, ma  sempre sature di interesse di persone che oggi esigono  vedere in contemporanea aggregazione di segmenti diversi delle umane attività culturali e ludiche. Compresa la ristorazione. Direi che la contaminazione è iniziata con i bistrot in cui la consumazione di un pasto, anche  modesto, era allietato dalla musica di una fisarmonica. L’abbinamento si è poi spostato verso l’arte esposta tra i tavoli di rinomati ristoranti, nei quali si discettava non solo della qualità del pasto, ma anche delle caratteristiche di un qualche pittura nota o meno nota. Nei ristoranti ci sono entrate le sfilate che possono essere allestite anche tra i meandri di fastosi palazzi. Una tendenza  nel passato neanche immaginabile, ora è una pratica routinaria. Tutte queste cose riescono bene poiché siamo alla rincorsa perenne della perfezione estetica che è costituita da tante tessere che cerchiamo di mettere insieme nel più breve tempo possibile. Già il tempo. Perché  mettiamo insieme tante cose che si contaminano tra di loro, perdendo forse la loro peculiarità se non l’originalità?  In poco tempo, in poco spazio, con poca tolleranza. Purché non si perda la “fame” di cultura che è bellezza, pazienza e attesa, mai assemblaggio.
Tutto è tracciabile. Tramite il Dna che oramai è entrato in ogni ambito della vita dell’uomo di oggi come di milioni di anni fa. È entrato in ambito forense non solo nelle tracce biologiche ma in tutto ciò che è venuto in contatto con il presunto colpevole. È penetrato nella ricerca archeologica anche se nascosto in posti ove qualcuno l’ha lasciato non ieri, ma millenni fa. Potremmo sapere non solo da dove vengono alcuni utensili ritrovati negli scavi, ma anche chi l’ha usati e in quale periodo. Insomma tutto ciò che facciamo oggi o abbiamo fatto milioni di anni fa lascia o ha lasciato una traccia. Allora perché non lo si applica oggi in ambiti della nostra attività quotidiana, ad esempio  nel settore della moda, che è dotata di un grande impatto mediatico, commerciale e di immagine  sulla realtà di aziende, imprenditori, buyer e consumatori? In un mercato ove contano la fantasia, gli stili, l’eleganza, la qualità, i materiali e il brand, sono parimenti importanti i valori ai quali ci si ispira: affidabilità, credibilità, sostenibilità nei quali i consumatori pongono la loro fiducia. In questo rapporto fiduciario sta subentrando un’altra componente: la tracciabilità, che è poi la versione attuale di un‘antica richiesta: l’interesse del consumatore. Ed allora ecco che spunta il TFashion, esteso anche come TF-Traceability & Fashion, un sistema di tracciabilità che si basa su quattro componenti essenziali: trasparenza verso il consumatore, responsabilità nei confronti dei propri fornitori, autenticità del prodotto, eticità del comportamento. In pratica cos’è il TFashion?   Nato con la volontà di qualificare e valorizzare il sistema della moda, è un complesso di tracciabilità ideato e promosso dalle Camere di Commercio italiane, con lo scopo di fornire un valore aggiunto alle produzioni e una differenziazione dei prodotti del mercato. TFashion si articola su questi punti: a) volontarietà, l’adesione è volontaria; b) libero accesso, possono aderire tutte le aziende italiane impegnate nei vari settori, tessile, abbigliamento, pelletteria, calzature, metalli preziosi; c) etichettatura dei prodotti, le aziende aderenti al sistema di tracciabilità possono avvalersi dell’etichetta TFashion inserita nei loro prodotti nelle modalità a loro più gradita; d) vero “Made in Italy”, le aziende che realizzano tutte le fasi in territorio italiano possono utilizzare la dicitura “100% Made in Italy”; e) modularità dell’applicazione, le aziende che intendono aderire al sistema TFashion possono certificare una o più linee produttive; f) condivisione dei requisiti, il sistema di tracciabilità è stato elaborato e condiviso dalla principali Associazioni di categoria. Tra i dati più  qualificanti della certificazione TFashion è l’indicazione del luogo ove sono avvenute le principali fasi di lavorazione del prodotti. Così nessuno può più barare. A tutto vantaggio del consumatore, che è il principale destinatario del sistema di tracciabilità. Non solo. Per garantire il consumatore con un’informazione chiara e completa, sono previsti interventi che assicurano la veridicità delle informazioni fornite in etichetta, alle quali si aggiungono rigorosi sistemi di controllo. In sintesi, la finalità del TFashion raggiunge un triplice obbiettivo: il consumatore ha la garanzia che il prodotto acquistato ha caratteristiche di autenticità e trasparenza, il produttore costruisce la sua immagine e profitto sulla qualità e sulla eticità, l’Ente Pubblico, come la Camera di Commercio, è consapevole del servizio prestato a favore del consumatore, attento e consapevole e del proprio consociato, protetto e garantito.
Si chiamava Ernest Hutten, ebreo, fisico nucleare, docente all’Università di Londra, ieratico nell’aspetto, semplice ed elegante nei modi. L’ho incontrato molti anni fa a Roma ai corsi di Epistemologia (storia della scienza) che si tenevano all’Università “La Sapienza”. Aveva fatto parte negli USA del famoso Progetto Manhattan del 1939, finalizzato alla costruzione della bomba atomica. Ultimo  arrivato,  era il più giovane del gruppo degli scienziati. Più volte mi sottolineava che tra tutti gli uomini del progetto, pur conoscendone le finalità, nessuno parlava di bomba atomica. Quando dopo Hiroshima e Nagasaki fu tutto chiaro, il gruppo si è dissolto; molti si sono suicidati, altri si sono distribuiti  in  laboratori e  università  del mondo. Huttun sbarcò a Londra. Il   Progetto non ebbe però solo fini militari – mi ripeteva continuamente Hutten – ma  anche numerose  implicazioni della scienza, della sua organizzazione e percezione. Un giorno mi presenta un articolo  del suo amico e collega di Progetto, Alvin Weinberg pubblicato su Science nel 1961 (ma egli da anni ne conosceva il contenuto), dal titolo “Impact of Large-Scale Science in The United  State”, ove per la prima volta si parla di Big Science. Intendendo con questo binomio un progetto  scientifico voluto e diretto dalla politica, di immense dimensioni economiche, basato sull’impiego di sofisticata strumentazione e con un forte controllo amministrativo. Il saggio si pone tre domande: Big Science sta rovinando la scienza? Big Science sta rovinando finanziariamente i paesi che l’adottano? Big Science può essere indirizzata meglio?E Weinberg dà risposte precise e circostanziate. Poiché Big Science necessità di grandi fondi statali si presuppone il consenso dei contribuenti, per ottenere il quale occorre quell’arma cruciale che è la divulgazione attraverso i media. Ed essenzialmente, in accordo con Fiorenzo Conti, la comunicazione giornalistica non contemplata dal metodo scientifico. Quindi a partire dal Progetto Manhattan, passando per la Big Science, emerge ancora la comunicazione. Orale, scritta o digitale? Sembra che la carta stampata meglio esprima l’esigenza diffusiva della Big Science, per le numerose componenti che la compongono. Anche se sappiamo che la  Big Science può avere risvolti non sempre positivi per la condizione umana, a causa ad esempio della denarite (come la definisce Weinberg), tuttavia dobbiamo conviverci. Nessuno accetta che la Big Pharma non investa da oltre venti anni fondi  per la ricerca di antibiotici, che al momento sembra non essere remunerativa malgrado l’antibiotico- resistenza diffusa in tutto il mondo. Ma le applicazioni sono maggiori se prendiamo in considerazioni altri ambiti come la biologia (Progetto Genoma) e le neuroscienze (Brain Initiative-USA), (Human  Brain Project-EU). Convivere con la Big Science purché non schiacci la  preesistente Little Science, che è la scienza umana di tutti i giorni. È la scienza che con le sue scoperte sostenta il design, la moda, la locomozione leggera (bici e  moto), turismo, commercio, sport con relativi device, agricoltura e alimentazione, robotica, arte, sistemi di intelligenza artificiali  e algoritmi per la nostra salute. Sono tutte componenti di cui l’uomo trae o trarrà vantaggio, sono il volano per una nuova umanità, poiché frutto della Little Science. Questa, a differenza della Big Science non necessariamente, come mi riferiva Hutten anticipando Weinberg, è sempre a favore dell’uomo e imprime una tale velocità tecnologica da cambiare in meglio la sua storia.
Di Stem, acronimo di Science, Technology, Engineering, Mathematic, sentiremo parlare a lungo in un prossimo futuro che è già presente. In altri termini, si tratta di applicare valenze matematiche e scientifiche ad alto contenuto tecnologico a componenti umanistiche in senso lato compresi la moda e il design. L’acronimo è nato negli Usa dopo il meeting multidisciplinare del 2011 sulla “Educazione scientifica” della Fondazione Nazionale delle Scienze diretto da Rita Calwel, programmato proprio dal rilevamento di carenza di candidati scientificamente qualificati nei lavori ad alta tecnologia e in altri settori che necessitano di Stem. Nel 2012 la Casa Bianca, con l’intento di colmare queste richieste, ha emesso lo Stem Jobs Act, rafforzato da una legge del Ministero della Pubblica Istruzione che ha identificato quattordici settori in cui l’utilizzazione dell’acronimo può creare nuovi posti di lavoro nel campo dell’economia. I settori inizialmente identificati sono: manifattura avanzata, industria automobilistica, tecnologia biospaziale, sicurezza personale,  trasporto, ricerca aereonautica, biotecnologie, assistenza sanitaria, ospedali, previdenza e pensione. È indubbiamente una rivoluzione incentrata sulla ricollocazione della scienza al centro di una concezione unitaria della cultura, non divisa in umanistica da una parte e scientifica dall’altra. In Italia il messaggio Stem sta arrivando attraverso canali non istituzionali, cercando di farsi largo a fatica anche nelle scuole, più incuriosite che convinte dell’uso diffuso della nuova tendenza. Nel marzo 2016 è stato promosso il “Mese dello Stem” a cura del Ministero della Pubblica Istruzione, con l’intento di favorire l’innovazione tecnologica e la scienza tra gli alunni delle scuole superiori. Se poi a Stem si aggiunge la A di Arts si forma un acronimo completo che identifica la “soft skill” cioè il lato creativo di qualsiasi conoscenza, ove appunto la scienza si coniuga con la cultura umanistica con l’intento di imparare a programmare arte e scienza. Ma prima di Rita Calwell e la sua Stem, in Italia molti anni fa già si parlava di “Umanesimo Scientifico”, ad opera del filosofo della Scienza Ludovico Geymonat e dell’editore Paolo Boringhieri che concordemente affermavano: “Il nuovo umanesimo, l’umanesimo scientifico dell’epoca moderna, non può più permettersi di conoscere quello che dicono e pensano i filosofi, politici, artisti, ignorando quello che dicono e pensano gli scienziati”. Il tumultuoso avanzamento delle scienze nel ‘900 cambia lo scenario culturale fino a rimescolare le acque in cui la tecnologia sembra prevalere sulle scienze umanistiche. Due esempi per tutti: il design e la moda. C’è una supermodella, Karlie Kloss, molto popolare tra i designer, la quale non solo disegna e programma le proprie collezioni, ma promuove, come top model, il coding per le ragazze, organizza meeting, lancia seminari, attiva borse di studio per chi vuole imparare ad entrare nel mondo del design e moda con le coordinate dello Stem di cui lei è convinta seguace. Che dire del design? Emblema della sintesi tra mondo della tecnologia con iniezioni di cultura artigianale, storica, economica, estetica, artistica. All’insegna dell’umanesimo scientifico con tanta fantasia e creatività. Due componenti cardine nel mondo della moda. Perché l’Italia da decenni svetta nel campo della moda? Non lo dice nessuno, ma sono convinto che tragga spunto da quell’umanesimo scientifico ad impronta filosofica e editoriale che ha permeato il nostro Paese da molti anni. Lo Stem è venuto dopo.
“Mio caro amico, le scrivo in gran fretta. Parto fra mezz’ora per bombardare Grahovo [...] Il titolo per la Società è questo. L’ho trovato ieri sul vallone di Chiapovan: LA RINASCENTE. È semplice, chiaro e opportuno”. Con queste poche righe, nel 1917, Gabriele D’Annunzio comunicava al Senatore Borletti il nuovo nome per la società che aveva appena rilevato dai fratelli Bocconi.  Un nome semplice e chiaro, certamente, ma perché "opportuno"? Perché quella che chiameremmo oggi mission era: diventare il riferimento culturale per la nuova borghesia, che viveva l’esperienza di una società modernista affrontando per la prima volta, senza falsi pudori, problemi di praticità, igiene e gusto rinnovato.  Ma la vera novità è che un magazzino, un 'negozio', si fa carico di colmare un gap produttivo italiano, promuovendo cosi nuove tecniche, nuove professionalità, una nuova estetica. In quegli anni La Rinascente inventa di fatto un modello inedito di relazione tra progetto, produzione e mercato.  Finita la seconda guerra mondiale, un intero paese era da ricostruire dalle basi. In questo clima, nel 1951, si svolge la IX Triennale di Milano. Il tema di riferimento era: la forma dell’utile. La Rinascente partecipa a questa esposizione con un ambizioso prototipo di casa “moderna” arredato su disegno di Franco Albini. Un successo clamoroso, che convince La Rinascente ad approfondire la questione di una nuova estetica applicata a tutti gli oggetti che compongono il nostro panorama quotidiano e ad immaginare e organizzare un vero e proprio premio, con l’obbiettivo di riconoscere e promuovere quei prodotti che si distinguevano per qualità culturali ed estetiche.  Nasce il Premio Compasso d’Oro. La sua prima edizione vede la luce nel 1954. D’Oro ovviamente in quanto metallo prezioso, ma d’Oro perché riferito al compasso usato dagli scultori per definire le proporzioni sulla base delle regole dell’armonia aurea. Generazioni di progettisti, si sono aggrappati all’idea di armonia espressa nella sezione aurea. Un'armonia intrinseca, magari non facilmente descrivibile agli occhi profani, eppure cosi facilmente percepibile, cosi inspiegabilmente rassicurante e pacificante.  Riferirsi a questi principi sembrò coerente con la cultura e l’impegno dei professionisti interpellati. Un impegno civile prima che di professionalità, un impegno che voleva mettere al centro del progetto moderno l’uomo e la sua felicità. Utopico? forse, ma di straordinaria attualità.  Se davvero i progettisti avessero saputo tenere al centro dei propri progetti l’uomo, oggi vivremmo in un mondo migliore. Ecco: il Premio Compasso d’Oro, ha sempre cercato di tenere l’uomo al centro. Non è poca cosa.  In oltre sessant'anni di storia il Premio Compasso d’Oro ha rilasciato poco più di 320 Compassi. Un premio che ha assunto sempre più valenza istituzionale, candidando il nostro miglior design nel mondo a un ruolo di riferimento culturale prima che estetico.  Per proiettare il premio in una dimensione più istituzionale La Rinascente decide nel 1958 di passarlo ad ADI Associazione per il Disegno Industriale, una associazione non corporativa, anzi: un'organizzazione capace di costruire un dialogo virtuoso e articolato tra le differenti componenti del progetto industriale.  Oggi il Compasso d’Oro ha cadenza biennale e si alterna a una edizione anch’essa biennale della versione tematica internazionale. Ogni anno catalizza l’attenzione degli addetti ai lavori, che lo paragonano al Nobel per il design, ma è anche capace di coinvolgere il grande pubblico. All’interno del premio viene inoltre assegnata la Targa Giovani, che nell'edizione tematica internazionale ha valenza di concreto sostegno economico allo sviluppo di una startup giovanile. Il premio nel tempo si è dato un percorso di selezione articolato e con criteri di scientificità. Attraverso una commissione permanente composta da oltre cento esperti nei diversi ambiti analizzati, il percorso di selezione biennale si sviluppa in tre differenti commissioni: territoriale (vero e proprio scouting tra le eccellenze italiane), tematica (capace di entrare nel merito specifico delle proposte) e infine una commissione scientifica di cinque persone, che selezionano circa quattrocento prodotti in due anni. Prodotti che vengono infine giudicati da una giuria internazionale e sempre più multidisciplinare per arrivare alla definizione di non più di venti Premi Compassi d’Oro per ogni edizione. Luciano Galimberti (Presidente ADI)
Ci sono tre marchi, corrispondenti ad altrettante linee politiche, che in questo momento vanno per la maggiore tra le aziende italiane ed europee. Il  primo è il marchio equosolidale applicabile a quelle aziende che investono non solo in attività di solidarietà ma anche di protezione ambientale nelle varie fasi di produzione delle merci; il secondo è il marchio del “living wage”  cioè il certificato che dimostra che l’azienda sta pagando ai suoi dipendenti uno stipendio dignitoso; il  terzo è il “Fair Tax Mark” l’ultimo arrivato dall’Inghilterra traducibile come “il marchio dell’azienda leale”, ovvero quella che paga le giuste imposte. Nessuno aveva pensato al terzo marchio, cioè che un’azienda fosse trasparente e tassata nel modo giusto. Va bene il giusto pagamento, ma è   auspicabile che anche l’imposizione delle tasse sia giusta. Atteniamoci per il momento all’azienda ligia nei confronti del Fisco. Dovrebbe essere normale, ma sappiamo che non lo è. Ed è proprio dall’Inghilterra che si è sentita la necessita di identificare con un marchio (un cuore verde con le parole Fair Tax Mark) l’azienda in regola con il Fisco. Non solo, l’esposizione del marchio garantisce che l’azienda ha le porte aperte agli ispettori della Finanza e che il suo bilancio trasparente non teme controlli. L’idea è di Emily Kenway che vanta una lunga esperienza nella  Living Wage Foundation, quella che, come detto, si interessa di far pagare stipendi dignitosi. È la stessa Kenway che asserisce che la sua idea ha una diffusione virale anche oltre Manica, apprezzata più del “bollino” equosolidale e di quello del “living wage”. Secondo la medesima direttrice l’azienda leale aiuta a conquistare non solo i consumatori, ma gli eventuali investitori che vogliono conoscere i rapporti dell’azienda con il Fisco. “Chi gestisce le risorse delle varie società vuole chiarezza sui bilanci” che il nuovo marchio garantisce. Non a caso l’iniziativa nasce nel Regno Unito ove sono state  orchestrate lunghe campagne contro le aziende che non pagano tasse. Sotto il profilo etico nulla da eccepire, anzi concordiamo con la Kenway, ma sotto l’aspetto  operativo  nel nostro Paese  abbiamo qualche perplessità. Non tanto perché gli imprenditori italiani temono di aprire il loro bilancio allo Stato, ma perché è lo Stato ad essere  insolvente nei confronti degli imprenditori e delle aziende. Non solo tartassa gli imprenditori con tasse esorbitanti come in nessuna nazione europea (65-70%), ma non onora nemmeno entro i termini contrattuali il pagamento alle imprese che gli hanno erogato servizi. Si calcola che lo Stato debba ad imprese italiane oltre 65 miliardi di euro, imprese che in mancanza di  liquidità non possono sopportare  il carico di spese richieste. Risultato. Chiusura di aziende, mancato accesso creditizio, licenziamenti,  disoccupazione, e talvolta suicidio di imprenditori. Che è un omicidio di Stato. Invece di difendere  l’imprenditoria come grande risorsa della Nazione, lo Stato la umilia, la tartassa e si rende insolvente per prestazioni già effettuate. E gli italiani si chiedono di fronte a questa triste realtà come mai lo Stato si dimentica degli imprenditori che non paga, ma poi risarcisce debiti a banche, come la MPS, di cui non si conoscono i bilanci ma soprattutto si ignora a chi e come hanno dato denaro. Manca la trasparenza. Chissà se la Emily Kenway ha mai pensato di estendere il “ marchio delle Aziende Leali” anche alle Banche? Già, lei opera nel  Regno Unito ove le banche non hanno bisogno di bollini: la lealtà è da sempre nel loro Dna.
Se ne sono accorti in pochi. Ma è una notizia spiazzante. Amazon realizza un nuovo centro di distribuzione a Passo Corese in provincia di Rieti con un investimento di 150 milioni di euro e l’assunzione di 1500 unità in tre anni. Non è una notizia isolata. L’Italia sembra essere tornata  “attrattiva” non solo per i turisti ma anche per le imprese. Sono imprese come Apple, Cisco, Huawei e altri colossi prevalentemente del settore tecnologico, che puntano su un valore aggiunto del capitale umano di qualità. Non a caso gli insediamenti non li trovi nelle metropoli o in zone ad alta intensità industriale e di servizi, ma in paesi della provincia italiana ove c’è maggiore disponibilità di tecnici e operai specializzati. Pronti a spendersi da subito. Senza abbandonarci a un facile ottimismo si percepisce che gli investitori internazionali guardino l’Italia con un certo interesse. Essenzialmente a favore dei giovani. Non più costretti ad emigrare da quelle zone provinciali. Forse per l’avvento di una nuova politica. Ma come si inseriscono i giovani nel mondo della politica? Tutti si lamentano dello scarso livello della politica, ma poi – soprattutto i migliori – ne disdegnano l’entrata. Nel  migliore dei casi abbracciano l’impegno sociale o il volontariato, ove i risultati sono più immediati. Nel peggiore dei casi si omologano in un gretto individualismo. Ma questi giovani che conoscono la storia, sanno che non è stato sempre così. Nell’immediato dopoguerra  le menti  migliori si impegnavano in politica per ricostruire l’Italia. Così abbiamo avuto grandi statisti come De Gasperi, Fanfani, Moro, che però non hanno avuto “né eredi, né continuatori” come direbbe il giornalista Paolo Borgna. E non solo in ambito cattolico, ma anche  tra i comunisti, i liberali, i socialisti, i repubblicani. Il pensiero plana allora sui vari Einaudi, La Malfa, Nenni, Togliatti, Lombardi, Berlinguer, Pertini. Insomma gli uomini delle prima Repubblica. Allora c’è da chiedersi cosa ha tenuto lontani dalla politica, in un secondo momento, gli uomini e le donne migliori dalla scena politica. Intanto la selezione di dirigenti politici del tempo che supponeva, in un ambiente carico di contrapposizioni, passione e spirito di servizio, e che veniva effettuata dai partiti, dalle parrocchie, dalle associazioni, dai sindacati che sapevano attingere il meglio dalle varie componenti della società  civile. E questa classe politica fu in grado di fare scelte per il bene comune di cui sono espressioni riforme storiche: l’edilizia popolare, l’istituzione agraria, la scuola media unificata, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, il servizio sanitario, lo statuto dei lavoratori, la riforma del diritto di famiglia. Rallentatosi lo scontro ideologico, la selezione del ceto politico si è annullata prima ancora delle dissipazione dei partiti politici. Così i talenti, la passione politica, il desiderio di lavorare per il bene comune si sono sfilacciati facendo emergere e  avanzare i mediocri. E la politica con la P maiuscola è precipitata con tutte le ricadute negative sociali ed economiche, a cominciare dalle problematiche giovanili. È stata la mediocrità politica a generare i danni della nostra società, a spingere i giovani, compresi i laureati, a cercare lavoro all’estero. Talvolta con grande successo. L’ultimo è stato Valentino Gantz che da Bologna si è trasferito a San Diego per scoprire addirittura come sconfiggere la malaria, la malattia che miete più vittime nel mondo. Ed è in odore di Premio Nobel. Ma è un’eccezione. In questo clima dobbiamo ringraziare chi porta lavoro in Italia come Amazon che promette lavoro a giovani, che la mediocrità dei politici non ha saputo procacciare in modo autoctono. La mediocrità si supera se attingiamo a giovani capaci di essere le nuove leve della classe politica. Con lo stesso spirito dei politici del dopoguerra. Abbiamo bisogno di politici perché le sfide alte sono tornate. E la disoccupazione  dei giovani è solo una, forse la più importante.
Alcuni amici provengono in auto dal Piemonte. Nel tardo pomeriggio, anche perché stanchi, decidono di trascorrere la notte in un agriturismo umbro precisamente ad Acqua S. Stefano, nel comune di Foligno. La destinazione è Amatrice, l’Hotel Roma, la notte è il 24 Agosto, quella del terribile terremoto. Evitato, forse insieme alla morte, perché stanchi di guidare. Poiché avevano già prenotato, il loro nome non figurava né tra i vivi, né tra i morti del sisma. Tutta la notte sono stati a telefonare ai loro parenti per rassicurarli di essere sopravvissuti solo per un “felice” contrattempo. È questo un episodio controcorrente – certo alimentato da una grande fortuna – del terremoto al confine laziale-umbro-marchigiano. In un momento di  immane dolore e di morte sparsa ovunque, abbiamo registrato alcuni episodi di vita e di speranza pur tra la tragedia e i danni del sisma. Intanto le vite salvate. Sono 215. Salvataggi operati essenzialmente dai Vigili del Fuoco, che hanno scavato anche con le mani sotto le macerie, in una affannosa corsa contro il tempo. E anche da tanti giovani. Tante storie a lieto fine da portare sempre nel cuore, non solo dei salvati e dei salvatori, ma di tutti. Giovanni, autotrasportatore, rimasto sotto due metri di detriti per dodici ore, poi sono arrivati gli “angeli” salvatori. C’è Alexandra Filotei, attrice, che non se la sentiva proprio di morire nel buio pesto, annusando l’odore del gas. Ha strillato finché poteva, ed è stata liberata. Luca si è liberato da solo scavando con le proprie mani, e scavando ancora ha estratto i suoi parenti. Giorgia e Giulia hanno emozionato il mondo. “She’s alive” fa sapere all’America la Cnn parlando dell’incredibile salvataggio di Giorgia, 4 anni, dopo 17 ore di sepoltura sotto le macerie della sua casa a Pescara del Tronto, tra le braccia di un pompiere che tocca il cuore di tutti gli italiani, con il suo nome che è un presagio: Angelo. L’ha trovata tra le braccia della sorella Giulia, 9 anni, morta, forse per proteggerla da brava sorella maggiore. Commuovono le immagini di altri bambini: Leo e Samuele, 4  e 6 anni, salvati da nonna Vitaliana sotto il letto, capaci di guidare i soccorsi con le loro vocine e di scavare con le loro  manine. Poi c’è lo straordinario coraggio di Elisabetta, 6 anni, che si è gettata dalla finestra tra le braccia del papà, scampando ai crolli. E che dire di Luigi, cieco, abituato al buio che ha salvato la moglie Ernestina cercata e trovata nell’oscurità dei detriti della loro casa. In questo caso la cecità come dono, la disgrazia come luce in cui il buio è la sua vita e la notte del terremoto è stata la salvezza sua e di Ernestina. Uno sguardo anche a chi facendosi  “angelo” come il pompiere  Angelo di nome di fatto, si è adoperato per sconfiggere il male sismico. Ci sono quei 16 frati del convento di Rotella (Ascoli Piceno), che con l’energia dei loro anni giovanili, sono veri “angeli” con i sandali, in giro sui luoghi del terremoto, punto di riferimento di tanti persone rimaste senza nulla, accanto a famiglie che hanno perso figli, genitori, nonni. Questi francescani che sono anche muratori (hanno ristrutturato recentemente con le proprie mani il convento ove vivono e che ha resistito al sisma) hanno offerto prestazioni edili, mettendo le mani tra muri crollati e macerie polverose. A tutti gesti e messaggi di vita. Senza saperlo è quanto hanno dato i cani ai terremotati, al fianco dei loro accompagnatori: Soccorso Alpino, Guardia di Finanza, Carabinieri, Protezione Civile. 60 vite salvate e 50 corpi ritrovati in cambio di un pezzetto di wurstel o una pallina. Tanto poco per così tanto.
Alla Luiss Guido Carli di Roma, Università della Confindustria, si è svolto recentemente un convegno su un tema di crescente interesse economico: il rapporto tra profitto, sostenibilità e diritti umani. Ciò a significare che non c’è profitto senza sostenibilità, non c‘è crescita se non si rispettano i diritti umani. Il convegno è stato promosso dal Comitato Italiano della Camera di Commercio Internazionale (alla quale aderiscono organizzazioni imprenditoriali, Camere di Commercio e aziende  di oltre 130 Paesi) e dal Centro Ricerche della Luiss. Erano presenti  relatori e accademici di livello internazionale, rappresentanti di alcune note imprese mondiali (Microsoft, Coca Cola, Gucci, Enel, Eni), esperti di organizzazioni non governative (Fao, Oxfam, Fondazione Avsi, Ituc-Associazione Internazionale dei Sindacati). L’iniziativa della LUISS fa pendant con un analogo meeting svoltosi al Teatro Cucinelli di Solomeo, ove è stato presentato il libro “Ripensare il Capitalismo” di Philip Kotler. Due eventi per sottolineare un solo aspetto, vale a dire il nuovo ruolo dell’impresa in un mondo che auspica un buon uso della ricchezza, una virtù che per molti è più difficile possedere rispetto alla capacità di diventare ricchi. Anche se l’impresa è ancora oggetto di una cultura anti-industriale che mira a demonizzare il profitto che si vuole contrapposto alla solidarietà, quale fosse un valore ad essa antitetico. L’idea che tende a ridimensionare tale  sillogismo sta facendosi strada anche in Italia, pur con evidente difficoltà. Basti pensare che negli Stati Uniti già alla fine del XIX secolo profitto e solidarietà già andavano a braccetto. Due esempi per tutti: Andrew Carnegie e John D. Rockefeller, due grandi imprenditori americani che hanno aperto la strada ai giganti della filantropia moderna, hanno visto il conto delle loro donazioni  riportato sui maggiori giornali per molti anni a partire dal 1903. Anno in cui il London Times affermava che Carnegie aveva donato 21 milioni di dollari e Rockfeller 10 milioni. Nel 1913 il New York Herald riportava in 332 milioni di dollari il contributo di Carnegie e in 175 milioni quello di Rockfeller. Tutto accadeva quando ancora non c’erano incentivi fiscali alle donazioni. Con l’avvento di nuove detrazioni fiscali le donazioni crebbero a dismisura con sostegno principale all’istruzione: università, enti di ricerca, scuole, biblioteche, borse di studio. Anche in Italia dopo oltre un secolo è stata approvata una legge a favore delle donazioni e stanno iniziando iniziative filantropiche. Suddivisibili in tre settori: solidarietà, mecenatismo, dignità. Con la solidarietà si condivide con chi ha meno, con il mecenatismo si attivano iniziative culturali e recupero di opere d’arte, con la dignità – soprattutto dei lavoratori – si attua il maggiore dei messaggi evangelici: ama il prossimo come te stesso. La triade filantropica permette a qualsiasi impresa, comprese quelle che si occupano di moda e di lusso, di entrare a pieno titolo nelle multiformi vitalità della società, non tanto e non solo perché qualcuno “vuole restituire qualcosa”, ma essenzialmente perché desiderano contribuire alla crescita culturale della nazione. In sintonia con l’insegnamento di Michael Novak, uno dei maggiori teologi ed economisti americani: “La filantropia è il latte materno della società civile. Senza bisogno di rivolgersi allo Stato, qui le persone si volgono l’una verso l’altra e realizzano obiettivi di pubblico interesse”.
“É nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato”, scriveva Albert Einstein negli anni ’50. E noi aggiungiamo in tono meno  aulico ma storicamente più robusto perché di stampo latino: “Mater artium necessitas”, la necessità aguzza l’ingegno. E mai come in questo tempo di crisi, che ci riporta al secondo dopo guerra, assistiamo ad un florilegio di iniziative, di star-up, di invenzioni ed anche di brevetti. Negli ultimi anni l’Ufficio europeo dei brevetti ha pubblicato 14.000 domande con prevalenza del Manifatturato avanzato (69.5%), Biotecnologia (6.8%), Micro e nano elettronica (5.7%). Nel campo della tecnologia green i brevetti italiani sono cresciuti del 5.4% e quelli del Ket (Key Enabling Technology) dell’1.1%. Nel complesso le tecnologie abilitanti sono ritenute capaci di innovazioni accelerate in modo trasversale. Scendiamo un po’ in basso. Se è vero che la crisi è un’occasione per ritrovare fiducia, per adottare un approccio resiliente, per coinvolgere in questo percorso le formazioni giovanili, l’obbiettivo è in progress. O meglio, stiamo navigando in una rivoluzione culturale incredibile per l’Italia fino a poco tempo fa. Oggi, se un giovane ventenne decide di fare l'imprenditore, non si evoca più la figura del figlio di papà, ma di un creativo, che rischia e che si mette in gioco. Fotografano questa rivoluzione le pagine di un libro: “Il Sud vola. Viaggio tra start-up e giovani innovatori” di Alessandro Cacciato (Edizioni Medinova), recensito recentemente sul Sole24 Ore.  Si scopre così che in Sicilia – terra di storie e di povertà – si è deciso di scommettere su artigianato e digitale, su scuola e territorio che finalmente dialogano e si aprono a giovani di buona volontà e alle menti migliori. “Questi ragazzi e ragazze non hanno ceduto alla disperazione, ma si sono anzi ingegnati per fare impresa nella legalità, cercando di riappropriarsi del loro territorio, lontani dalle logiche della clientela politica e dall’azione delle mafie”. Certo, le start-up non risolvono la crisi economica della Sicilia e del Mezzogiorno, ma sono segnali tangibili di ripresa poiché alimentano speranze, potenziano talenti, trasmettono saperi e fiducia. Non solo, queste iniziative valorizzano tesori artistici, scoprono borghi e paesi devastati dall’incuria, creano centri culturali. A Favara (Agrigento) hanno addirittura istituito il Museo delle Persone dotato di una galleria d’arte contemporanea che ospita i maggiori artisti emergenti internazionali. Con grande ricaduta sul turismo. Se questo messaggio culturale partito dalla Sicilia potesse risalire l’intero stivale, molti dei nostri problemi economici e occupazionali sarebbero in via di risoluzione. Sarebbero così ancora attuali le parole di Antonio Gramsci: “Preparatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza. Studiate, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza”. E allora, entusiasmo, forza, intelligenza rappresentano un trittico che serve all’Italia per superare la crisi e progredire.
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