Parla l'esperto (22)

Dal 19 gennaio 2013 è in vigore la nuova disciplina in materia di patenti di guida, introdotta con il decreto legislativo 18 aprile 2011, n. 59, modificato dal decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 2. La riforma, che dà attuazione alle direttive comunitarie 2006/126/CE e 2009/113/CE, è volta a migliorare il livello della sicurezza stradale, attraverso una più attenta formazione dei conducenti e degli stessi esaminatori. La patente diventa europea, attraverso un processo di uniformazione normativa che porta al rilascio, in tutti gli stati dell'Unione, di un documento uguale, non soltanto nel supporto materiale, ma anche nei requisiti richiesti per conseguirlo. Cambiano i limiti di età per i vari documenti di guida, che diventano 15, con l'introduzione di sottocategorie che consentono di condurre solo alcuni veicoli della categoria principale. Tra le novità è da segnalare la soppressione del cosiddetto patentino per i motocicli, sostituito dalla patente AM, che potrà essere conseguita in Italia a 14 anni, ma che abilita alla guida su tutto il territorio UE solo al compimento dei 16 anni; la stessa età è prevista per il rilascio della patente A1, che consente la guida di moto 125, mentre per le moto fino a 35 Kw è necessaria la patente A2, riservata ai maggiorenni; la patente A, che abilita alla guida di tutte le moto, senza limitazioni, potrà essere conseguita a 20 anni, ma solo se si è già in possesso della patente A2 da almeno due anni, altrimenti è necessario attendere il compimento dei 24 anni. Dal punto di vista sanzionatorio, la riforma punisce non solo chi guida senza patente, ma anche chi conduce un veicolo senza aver conseguito la corrispondente patente di guida, ossia con un documento di categoria inferiore rispetto a quella richiesta dalla legge. La riforma, tuttavia, riguarda soltanto i nuovi conducenti. Le patenti rilasciate entro il 18 gennaio 2013 conservano infatti la loro efficacia ed abilitano i loro titolari alla conduzione degli stessi veicoli previsti al tempo del rilascio.
La tanto auspicata legge diretta ad equiparare lo stato giuridico dei figli, indipendentemente dalla presenza o meno di un vincolo matrimoniale tra i genitori, ha visto finalmente la luce. È stata infatti recentemente pubblicata la legge 10 dicembre 2012, n. 219, che mira ad eliminare qualsiasi residua distinzione tra figli legittimi, ovvero nati da genitori sposati, e figli naturali, ossia procreati fuori dal matrimonio. La normativa modifica alcuni articoli del codice civile, proseguendo un percorso di parificazione già iniziato con la riforma del diritto di famiglia del 1975 e successivamente proseguito, non solo dal legislatore, ma anche dalla giurisprudenza. Con l'entrata in vigore della nuova legge, le anacronistiche locuzioni "figli legittimi" e "figli naturali" spariscono dal codice civile, per lasciare il posto alla più generale espressione "figli", senza alcun aggettivo discriminatorio. Ai figli di persone non unite in matrimonio viene riconosciuto un vincolo di parentela, non solo con i genitori, ma anche con il resto della famiglia (nonni, cugini, zii), con ripercussioni nel campo dei diritti ereditari, in aderenza al principio di unicità dello stato di figlio. Cade anche ogni differenziazione in materia di riconoscimento, che viene oggi consentito anche al padre e alla madre "già uniti in matrimonio con altra persona all'epoca del concepimento". Le modifiche investono anche il campo processuale, ridefinendo le competenze del Tribunale ordinario e del Tribunale dei minorenni. La legge affida inoltre al Governo il compito di modificare, entro un anno, le disposizioni che realizzano una discriminazione tra i figli, anche adottivi, dettando una serie di principi e criteri direttivi. Il legislatore ha dunque adeguato la disciplina in materia all'evoluzione della società e all'eterogeneità delle famiglie odierne, che sono spesso caratterizzate da nuclei di fatto, consentendo così il superamento di una visione ormai vetusta, contrastante con il diritto europeo e con tutte le fonti sopranazionali.
Quando attraverso la stampa vengono commessi reati come quello di diffamazione, si configurano profili di responsabilità che non riguardano solo l'autore dell'articolo, ma anche il direttore responsabile del giornale che l'ha pubblicato. In particolare, l'art. 57 del Codice penale prevede che, ferma restando la responsabilità dell'autore dell'articolo, "il direttore o il vicedirettore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo dalla pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso..". Il direttore responsabile risponde quindi di un reato autonomo ed è punito per una sua negligenza, riconducibile all'omesso controllo. Quando si parla di pubblicazioni on line, tuttavia, la situazione è differente. Ed infatti la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 35511/2010, ha chiarito che la normativa prevista per la diffamazione a mezzo stampa non è applicabile ai fatti commessi tramite internet, non potendosi assimilare il giornale telematico a quello stampato. In caso contrario, mancando una espressa previsione legislativa in tal senso, verrebbe frustrato il principio di tassatività delle norme penali, per il quale un fatto costituisce reato solo se la legge lo definisce espressamente come tale, e si ammetterebbe una violazione di divieto di analogia "in malam partem", che non consente l'applicazione di una norma ad un caso simile quando ciò avvenga a sfavore del reo. Peraltro, sul piano pratico, sarebbe estremamente difficile individuare il profilo della colpa, poiché la c.d. interattività, ossia la possibilità di interferire sui testi che si leggono e si utilizzano, vanificherebbe o comunque aggraverebbe notevolmente il compito di controllo del direttore. Allo stato, l'articolo 57 del Codice penale non è quindi applicabile al direttore di un giornale on-line ed opera soltanto per la carta stampata, nonostante le plurime proposte di legge presentate per estendere la norma anche a queste ipotesi. Dunque, quantomeno sotto questo specifico profilo, nel concetto di stampa non è stata ancora ricompresa l'informazione sul web.
Le lesioni riportate dal lavoratore che subisce uno scippo durante il normale percorso di andata e ritorno dall'abitazione al posto di lavoro possono legittimare il riconoscimento dell'indennizzo previsto per il c.d. "infortunio in itinere". Lo ha recentemente affermato la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11545 del 10 luglio 2012, con riferimento al caso di una impiegata di Perugia che pretendeva dall'INAIL la corresponsione dell'indennità temporanea e della relativa rendita per l'infortunio occorsole, sulla strada del rientro a casa, a seguito di una aggressione a fini di scippo, che le aveva procurato varie lesioni. La Suprema Corte, con la richiamata sentenza, ha ribaltato la decisione adottata dai Giudici perugini di primo e di secondo grado, che avevano negato l'indennizzabilità dell'evento come infortunio in itinere, sostenendo che "il fatto doloso di un'altra persona aveva interrotto il nesso causale tra la ripetitività necessaria del percorso casa-ufficio e gli eventi negativi connessi". La Sezione Lavoro della Suprema Corte, richiamandosi alla propria precedente sentenza n. 3776 del 14 febbraio 2008, ha cassato tale decisione, rinviando alla Corte d'Appello di Ancona per il riesame della vicenda, precisando che, ai fini della tutela previdenziale dell'infortunio in itinere, rilevano anche gli eventi dannosi "imprevedibili ed atipici, indipendenti dalla condotta volontaria dell'assicurato, atteso che il rischio inerente il percorso fatto dal lavoratore per recarsi al lavoro è protetto in quanto ricollegabile, pur in modo indiretto, allo svolgimento dell'attività lavorativa, con il solo limite del rischio elettivo", ossia del rischio determinato dal lavoratore stesso con il suo comportamento assolutamente arbitrario. Buone notizie quindi per i malcapitati che si ritrovino a subire uno scippo mentre si apprestano ad andare o tornare dal luogo di lavoro; pur sempre aggrediti e derubati, ma almeno indennizzabili. Il danno rimane, ma cessa almeno la beffa.
L'estinzione di una società coinvolge inevitabilmente una serie di rapporti che l'impresa collettiva ha creato nel corso della sua esistenza e che, con la sua liquidazione, sono destinati a concludersi. Accade di frequente che, nonostante l'intervenuta cancellazione di una società dal registro delle imprese, alcuni di questi rapporti non sono ancora definiti e pertanto l'estinta lascia dietro di sé una serie di creditori insoddisfatti e, in alcuni casi, anche delle controversie giudiziali ancora pendenti. Le ripercussioni che tale fenomeno produce su queste situazioni rimaste indefinite giustifica l'ampio dibattito che si è sviluppato intorno alla questione degli effetti giuridici della cancellazione di una società dal registro delle imprese, sulla quale è infine intervenuta la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con tre sentenze (nn. 4060/2010, 4061/2010 e 4062/2010) che hanno fatto chiarezza sul punto, affermando un principio generale che rende omogenea la disciplina in materia. La Suprema Corte ha infatti affermato a chiare lettere che, a seguito della cancellazione, la società si estingue in maniera irreversibile e perde ogni capacità e legittimazione, anche processuale, nonostante la presenza di crediti insoddisfatti, rapporti di altro tipo non definiti ed eventuali giudizi pendenti. Risulta così superata la tesi che riconduceva l'estinzione della società soltanto alla effettiva definizione di tutti i rapporti giuridici in sospeso. Con la riforma del diritto societario è stata infatti introdotta una modifica al codice civile con la quale, per le società di capitali, si è precisato che l'estinzione della società "resta ferma" dopo la sua cancellazione, anche se i creditori dell'estinta possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci. La Cassazione ha ritenuto di poter estendere tale effetto estintivo anche alla cancellazione delle società commerciali di persone, in favore di un identico trattamento di tutti i creditori delle imprese individuali e collettive.
Uno degli aspetti più discussi della riforma voluta dal Governo e contenuta nel decreto "Salva Italia" riguarda l'intervento sul sistema pensionistico, che prevede una serie di modifiche tese ad armonizzare l'attuale regime previdenziale. Ed infatti, al dichiarato scopo di rendere omogeneo l'articolato sistema in vigore, si sono introdotte regole più restrittive che troveranno applicazione già dal 1° gennaio 2012, a discapito dei lavoratori che si credevano prossimi alla pensione. Tra le principali novità è previsto un innalzamento della soglia della vecchiaia. L'età pensionabile delle donne lavoratrici del settore privato sale a 62 anni nel 2012 per arrivare progressivamente a 66 anni nel 2018, mentre per gli uomini cresce a 66 anni già dal nuovo anno. Ai trattamenti anticipati si potrà accedere solo con 42 anni e un mese di contribuzione per gli uomini e con 41 anni e un mese per le donne, con l'applicazione di penalizzazioni per chi non ha ancora raggiunto i 62 anni di età. Non saranno soggetti alle nuove misure delle pensioni coloro che hanno già maturato i requisiti attualmente in vigore entro il 31 dicembre 2011. È inoltre previsto un meccanismo di adeguamento alla speranza di vita che comporterà, anche per i soggetti esclusi dalle nuove norme, un ulteriore allungamento di tre mesi di tutti i requisiti, che avverrà per la prima volta nel 2013 e si applicherà ogni tre anni fino al 2019, per poi diventare biennale. Inoltre, dal 1° gennaio 2012, tutti i trattamenti previdenziali dovranno essere calcolati con il metodo contributivo pro-rata. La novità si applicherà solo ai versamenti successivi al 2011, mentre la quota precedente di pensione continuerà ad essere calcolata con il metodo retributivo. L'applicazione del nuovo sistema di calcolo, meno vantaggiosa per il beneficiario del trattamento previdenziale, comporterà un'ulteriore penalizzazione per il pensionato, anche se gli effetti dell'intervento saranno graduali. Sarà invece incentivata la prosecuzione dell'attività lavorativa oltre i limiti dell'età pensionistica, fino a 70 anni e oltre. Queste, in estrema sintesi, le principali novità, che, con alcune deroghe ed eccezioni, porteranno, nel giro di qualche anno, all'auspicata armonizzazione, non senza il sacrificio di molti pensionati (e pensionandi) e con le inevitabili polemiche sull'opportunità di mettere mano al sistema previdenziale nel tentativo, più o meno dichiarato, di contribuire così al risanamento del debito pubblico italiano.
La Corte di cassazione ha chiarito che lo scarso livello di acculturazione non può giustificare l'evasione fiscale, che va comunque repressa e punita La legge non ammette ignoranza; questo era già chiaro a tutti da tempo. Quello che la Suprema Corte, di recente, ha ulteriormente precisato è che neppure l'analfabetismo può giustificare la violazione del sistema giuridico, soprattutto quando si tratta di norme in materia fiscale. In particolare, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 5969, ha confermato la condanna per i reati di falso ideologico di privato in atto pubblico e truffa aggravata ai danni dello Stato inflitta ad un 45enne siciliano che, per poter beneficiare dell'assegno familiare dal Comune di Palermo, aveva dichiarato un reddito pari a zero. Per tentare di ribaltare il duplice verdetto di colpevolezza espresso sia dal Tribunale che dalla Corte d'Appello di Palermo, il finto nullatenente aveva proposto ricorso in Cassazione, sostenendo di non essere punibile in quanto, a causa della sua condizione di analfabeta, non era a conoscenza della norma prevista dall'art. 65 della legge 448 del 1998. La Suprema Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato che nel caso in questione non ricorre alcun errore scusabile, sottolineando il carattere doloso della condotta adottata dall'evasore, il quale non poteva certo ignorare di possedere beni immobili e di aver prestato attività lavorativa per la quale era stato remunerato. Con questa sentenza il Giudice delle leggi ha anche chiarito che lo scarso livello di acculturazione non giustifica in alcun modo una condotta penalmente rilevante come quella di evadere il fisco, trattandosi di norme che devono essere conosciute da tutti. Pertanto né l'analfabetismo, né l'istruzione inadeguata possono scusare l'evasione fiscale, che viene comunque repressa e punita, indipendentemente dall'effettiva conoscenza della relativa disciplina da parte del frodatore. È quindi consigliabile reperire in ogni modo le informazioni necessarie a mettersi in regola col fisco perché l'evasore, anche se ignorante, rimane un evasore e come tale è chiamato a pagare.
Nuove regole in arrivo per la figura dell'amministratore del condominio La riforma del condominio, dopo settant'anni di sostanziale immobilità, potrebbe diventare una realtà normativa entro l'estate. La necessità di una riforma organica della materia, volta ad adeguare la disciplina codicistica - risalente al lontano 1942 -, alle nuove esigenze condominiali, appare evidente da parecchie legislature, ma il tentativo di concludere l'iter di formazione di un testo di legge condiviso non era mai giunto così lontano. Dopo l'approvazione del Senato, avvenuta il 26 Gennaio 2011, il disegno di legge 4041 è stato infatti già sottoposto all'esame della Commissione Giustizia della Camera e si avvia rapidamente alla sua definitiva approvazione. Le novità che si apprestano a ridisegnare l'istituto in veste radicalmente rinnovata sono molte ed interessano vari aspetti della disciplina fino ad oggi in vigore. Oltre all'esplicita previsione delle sempre più frequenti figure del supercondominio e dei complessi "orizzontali" costituiti da villette, il nuovo testo normativo prevede un ampliamento delle garanzie del condominio e rafforza la figura dell'amministratore, che viene investito di nuovi poteri e sottoposto a maggiori responsabilità. In particolare, si aumenta da uno a due anni la durata del mandato dell'amministratore, che dovrà essere iscritto in un apposito registro pubblico presso la Camera di Commercio. All'amministratore si impongono una serie di nuovi obblighi, la cui inosservanza determina nuovi motivi di revoca dall'incarico: l'obbligo di procedere all'apertura di un conto corrente intestato al condominio, in modo da evitare confusione tra patrimonio personale e condominiale e tra i patrimoni di più condomini eventualmente gestiti dallo stesso amministratore; l'obbligo di prestare idonea garanzia per le responsabilità derivanti dallo svolgimento dell'incarico; l'obbligo di agire in tempi brevi per il recupero forzoso dei crediti condominiali. Restano alcune questioni da definire, come il riconoscimento al condominio della personalità giuridica, ma gli operatori auspicano di sciogliere ogni nodo entro giugno.
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